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Agricoltori in rivolta, ma per cosa?

Era l’inizio di gennaio, quando quasi 5.500 trattori hanno letteralmente bloccato la periferia di Monaco di Baviera, in Germania. Le difficoltà a tenere i conti in ordine, avevano spinto il governo Scholz a ritoccare il bilancio e fra le tante voci, era comparsa la riduzione dei sussidi per tenere calmierato il costo del carburante agricolo. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha definitivamente sancito la rottura fra mondo agricolo europeo e Green Deal. Il vento che si è alzato dai Länder infatti, ha ben presto contagiato la Francia, dove il medesimo taglio ai sussidi sul carburante unito all’ambizioso piano di riduzione del 50% dei trattamenti fitosanitari, ha portato il rovesciamento di diverse tonnellate di letame sulle strade. Qualche giorno dopo ancora, i primi trattori hanno iniziato a muoversi anche in Italia, Orte è stato senz’altro uno dei fronti più ripresi dalle tv – per altro senza mai dar prova di grandi numeri – ma al netto di una copertura mediatica senza precedenti, c’è un punto che sembra rimanere sempre opaco: per cosa protestano gli agricoltori italiani?

 

Stando al comunicato con cui lo scorso 30 gennaio il Coordinamento Nazionale Riscatto Agricolo (CNRA) si è presentato come promotore della sollevazione, sarebbero 10 i punti che spiegano le ragioni dello scontro (qui). Primo su tutti la Revisione completa della Politica Agricola Europea, in quanto di estremismo ambientalista e a discapito della produzione agricola e dei consumatori. In particolar modo di quella richiesta di lasciare incolto il 4% delle superfici coltivabili. Perché lasciare il terreno non coltivato è uno spreco e una deprivazione di reddito. E poi ancora richieste di detassazione, agevolazioni, aliquote iva da ridurre o annullare, lotta a tutto campo contro fauna selvatica e cibi sintetici (che non esistono), e non meglio precisati ammonimenti sull’importanza di riconsiderare la figura dell’agricoltore. Proprio su quest’ultimo punto però, che potrebbe sembrare il meno importante, si gioca una grossa parte della partita. Che immagine stanno dando gli agricoltori oggi? La categoria che per anni si è fregiata del ruolo di prima linea nel contrasto allo spopolamento e al degrado ambientale sta rischiando di passare per quella dell’ennesimo gruppo che la svolta green sì, ma che la facciano gli altri perché noi abbiamo già tanti problemi.

 

A primo impatto, il ministro Lollobrigida potrebbe accusare queste posizioni di essere state formulate dentro un salotto da radical chic, troppo più vicino allo champagne che al letame, eppure non serve avere una partita iva agricola per capire che la radice ultima dello scontro, in tutta Europa è ormai questa. Il fatto però, è che ogni rapporto economico fra due soggetti si basa sull’erogazione di una somma di denaro in cambio del soddisfacimento di una richiesta. Sia essa l’acquisto di cibo, di una macchina, di un servizio, chi ha una bisogno chiede, chi lo soddisfa viene pagato. Da che esistono, le politiche di sostegno europee all’agricoltura sono questo. Premi a chi si impegna a fare ciò di cui c’è bisogno. E oggi ciò di cui c’è bisogno è proteggere il pianeta, gli ecosistemi, quel sistema paesaggio che lo scorso maggio è collassato sotto le piogge in Emilia-Romagna e ha costretto al varo di piani d’emergenza da decine di milioni di euro per provare a correre ai ripari. 

 

A volte ce ne dimentichiamo, ma l’Unione Europea è quel sistema politico-economico sovranazionale che per tutelare il proprio mercato agricolo interno ha rifiutato accordi di libero scambio con Usa e Australia, e che sta ponendo forti limitazioni anche a quello in fase di redazione con il Sud America – a discapito del settore industriale ad esempio, che avrebbe potuto spuntare senz’altro prezzi migliori per le materie prime. Spesso sono proprio le politiche di finanziamento che l’UE ha elaborato per il proprio comparto agricolo a rendere possibile l’acquisto dei trattori che occupano i caselli, o le stalle da cui vengono caricati il letame e la paglia usati come barriere. Per non dimenticare i pagamenti diretti destinati alle aziende che si impegnano a coltivare nel rispetto di disciplinari come il bio e la produzione integrata, alle misure per i pascoli apistici e il benessere animale. Buona parte della qualità di cui oggi siamo capaci nasce dall’aver messo insieme le forze per dare vita ad un sistema normativo comune capace di consentire a tutti di esprimere il meglio di cui sono capaci. Tutto questo ha un costo, è chiaro, ma offre anche tante opportunità ai nostri prodotti che una semplice derrata agricola d’importazione non avrà mai. Saperle mettere a frutto è la grande sfida. Costruire un nuovo potere negoziale nei confronti della GDO che impone regimi economici insostenibili al fine di lucrare sul lavoro altrui, a danno dell’intero comparto. Perché se il consumatore medio si è abituato a pensare che il costo di un buon ortaggio sia di massimo un paio di euro al Kg, è fra gli scaffali dei grandi magazzini che si deve andare a cercare la responsabilità, non certo nel 4% di superficie coltivabile che si deve lasciare incolta, con annesso contributo economico per altro. 

 

È questa forse la cosa peggiore, l’essersi abituati ad uno status da privilegiati, al punto di darlo per scontato, per dovuto quasi. E invece dubito che fuori dall’UE ci siano tanti margini di sostegno paragonabili a questi per il settore agricolo, che inevitabilmente deve sentirsi chiamato a fare la sua parte, perché l’immagine di una categoria non si rilancia scrivendo un punto in un decalogo, ma facendo la cosa giusta. E oggi, la cosa giusta è salvare il mondo, soprattutto da noi stessi.