EVENTI FRANOSI LE CHIOME DEGLI ALBERI RENDONO INVISIBILI LE FERITE
«Anche se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te», recita un celebre inciso, e la cosa si fa più che mai evidente quando si parla di politiche climatiche. Sono diversi anni infatti, che in Italia, come un po’ in tutto il mondo, nonostante sia stata scientificamente provata, il surriscaldamento globale viene guardato con grande sufficienza dall’opinione pubblica. Roba da ambientalisti alla Greenpeace o da invasati dell’ecologia insomma. Nulla di più sbagliato. Sì perché quando poi i risultati di tanto disinteresse si fanno evidenti, e non parlo soltanto dello scioglimento dei ghiacciai che rischia di portare all’estinzione la cultura degli Inuit o dell’innalzamento degli oceani che porterà alla scomparsa delle Maldive, ma anche e soprattutto del susseguirsi di fenomeni atmosferici extra-ordinari, la questione diventa rilevante e come. Anche perché, se ai proclami del teleschermo che invoca catastrofi naturali a ripetizione ci stiamo ormai abituando, così da anestetizzare sempre di più la loro capacità di suscitare attenzione, alle conseguenze che tali eventi lasciano sul territorio non ci si abitua mai. Ne sono un chiaro esempio gli abitanti di Gualdo Cattaneo, che negli ultimi cinque anni hanno assistito a ben due eventi franosi proprio all’interno del centro storico, che ne hanno trasformato radicalmente l’assetto e la vivibilità; ed è solo grazie alle folte chiome degli alberi che circondano il paese se le ferite inferte alle antiche mura sono rimaste per lo più invisibili ai passanti. Nel cuore di chi questo luogo lo chiama “casa” infatti, esse rimarranno indelebili come l’eco grande sconforto che segue la presa di consapevolezza, da parte dell’uomo, della propria impotenza di fronte alla natura. Siamo sicuri però, che sia davvero tutto qui? Siamo sicuri che sia davvero solo una questione che riguarda il caotico svolgersi degli eventi climatici? La scienza, ed io in accordo con essa, la pensiamo diversamente. Sì perché anche se ce ne dimentichiamo, di quella natura a cui scarichiamo tutte le colpe, noi siamo una parte integrante; non tanto come singoli ma soprattutto come umanità. Ecco allora che ampliando l’orizzonte la visione d’insieme s’arricchisce, e si scopre che già dal 13 di agosto la terra ha oltrepassato l’Overshoot Day, ossia il giorno in cui abbiamo esaurito la riserva annua di risorse rinnovabili e andiamo ad intaccare irreversibilmente l’ecosistema mondiale; oppure che è bastata la semplice classificazione di India, Cina e Brasile come “economie emergenti” a preservarle anche solo dalla richiesta formale di aderire al protocollo di Kyoto. La sostanza è che la nostra presenza sta incidendo profondamente sugli equilibri che da millenni regolano il pianeta Terra e se stiamo smettendo un po’ tutti di fregarcene, il motivo appare in tutta la sua chiarezza proprio nelle parole iniziali di questo articolo; il clima ci sta facendo vedere che si occupa di noi. A questo punto la maggior parte di voi avrà già iniziato a pensare che ben poco può il singolo individuo di fronte a fenomeni tanto pervasivi da interessare l’intero pianeta; e probabilmente ha ragione. Il punto però è un altro secondo me, perché se è vero che a salvare il mondo ci possiamo provare solo come collettività, ed in parte ci stanno almeno formalmente pensando a Parigi dal 30 novembre i rappresentanti di 150 Paesi con la 21a Conferenza internazionale sul clima (Cop21), questo non ci autorizza a sentirci estranei alla questione. Perché se non crediamo di poter cambiare il mondo lo capisco, ma se non siamo disposti nemmeno ad impegnarci per salvaguardare al meglio il nostro territorio, allora sì che siamo davvero irrilevanti. Infatti, se tutto il benessere che ci ha portato l’aver trasformato il mondo nel celebre “villaggio globale” lo stiamo pagando a caro prezzo, lo dobbiamo soprattutto a questa percezione globalizzante che ci ha svuotato del senso d’appartenenza. Sedotti dalle promesse della scienza e della tecnica, abbiamo dimenticato quanto straordinario sia il nostro semplice esserci in questo universo, e quanto la vita, come ogni forma di bellezza, sia estremamente delicata. Come sottolineava anche Hans Jonas, il nostro secolo ha una responsabilità enorme nei confronti delle generazioni future, perché la minaccia che costituiamo per la prosecuzione della vita non è più solo legata agli arsenali atomici, ma anche all’indifferenza verso il pesante impatto che la diffusione del modello occidentale, palesemente insostenibile, sta avendo sugli equilibri naturali. Certo, probabilmente ha ragione anche il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, quando sostiene che il riscaldamento globale è un tema troppo astratto e dilazionato nel tempo perché la mente umana possa percepirlo come abbastanza importante da spingerci a vedere a ribasso il nostro stile di vita; eppure da qualche tempo la crisi economica sembra averci costretto proprio in tale direzione. Il vero volano della ripresa infatti, è costituito da tutto l’indotto generatosi intorno alla mutata percezione del rapporto con il territorio, tornato ad essere parte dell’intero ecosistema e non solo materia di sfruttamento. Basta sfogliare rapidamente le prime pagine del nuovo Programma di sviluppo rurale promosso dall’Unione Europea per il prossimo quinquennio per rendersene immediatamente conto. Per tanto, se è vero che difficilmente riusciremo a salvare il pianeta che abbiamo conosciuto, ciò non toglie che possiamo fare ancora qualcosa perché quello che verrà sia un mondo sul quale valga ancora la pena di vivere. Non è infondo per questo, per aver troppo amato la vita, che siamo giunti sul baratro della sua scomparsa?