Il 25 novembre e la banalità del male
Sono passati diversi giorni da quel 18 novembre in cui le parole pronunciate dal ministro Valditara nel famoso videomessaggio proiettato alla Camera hanno acceso un intenso dibattito pubblico. Sono passati alcuni giorni anche dalla condanna all’ergastolo per Impagnatiello e dalla sua richiesta ad opera della procura di Venezia anche per Turetta. Tutto in concomitanza con la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne che si celebra il 25 novembre.
Al netto del clamore propagandistico di alcune posizioni che hanno contraddistinto entrambe le parti dello schieramento politico nel commentare queste vicende, mi andava di provare a condividere una mia riflessione sul tema, che partendo da due passaggi del discorso del ministro, prova ad aprirsi su questioni più ampie.
La prima è legata all’uscita sull’immigrazione irregolare. Secondo il ministro infatti, l’incremento del fenomeno della violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale.
Il primo errore lo troviamo all’inizio e purtroppo s’inscrive nella lunga lista delle volte in cui i rappresentati del governo italiano preferiscono affidarsi alle proprie sensazioni anziché ai dati. Perché fortunatamente, negli ultimi anni non c’è stato un incremento di femminicidi, anzi, ciò che si vede dal 2021 ad oggi è un trend di leggerissimo miglioramento (fonte osservatoriodiritti.it). Del tutto insufficiente, ma comunque presente. Si è passati infatti dai 115 femminicidi del novembre 2021 ai 100 del novembre 2024 (per fare un paragone, nel 2014 i femminicidi sono stati 152 – fonte istat) passando anche per un incremento delle telefonate al 1522 – il numero gratuito per fornire assistenza alle donne vittime di violenza e di stalking – del 58% su base annua; in termini assoluti siamo a 48.000 telefonate. Occasioni durante le quali operatrici qualificate forniscono supporto, anche emergenziale con telefonate alle forze dell’ordine, a donne vittime di violenza. Ed è proprio un’operatrice di questo prezioso servizio che durante un’intervista a Il Post ha dichiarato: «riguardo al rapporto tra violenza di genere e processi migratori, i dati ci dicono che l’80 per cento di chi compie violenza di genere è italiano» e nella stragrande maggioranza delle volte ha le chiavi di casa.
Proprio qui però emerge un altro aspetto che rivela il carattere tendenzioso delle parole del ministro: cosa c’entrano le modalità d’ingresso in un Paese con questo genere di violenza? È chiaro, le componenti culturali possono senz’altro giocare un ruolo – e probabilmente possiamo concedere anche che il fenomeno della violenza sia presente in percentuali maggiori all’interno delle minoranze di origine esterna all’Italia -, ma a cosa serviva specificare “irregolare” se non a sottolineare implicitamente che la cosa giusta da fare è respingere, rifiutare, rinnegare l’esistenza di una categoria di persone in quanto fonte di problemi? Mentre invece, a ben vedere, sta proprio in questo atteggiamento di rifiuto che risiedono i germi di quella marginalità di cui parla lo stesso Valditara quale concausa della violenza. Sulla questione della violenza frutto di radici culturali infatti, c’è già una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 8986/2020 che parla chiaro: Le gravi condotte di maltrattamento e lesioni in danno a familiari e conviventi non possono dirsi giustificate dalle differenze culturali e religiose dell’imputato. Perché per l’art. 3 della Costituzione “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“, e il rispetto dei dettami culturali non può prevaricare il primato della persona umana; la sua libertà individuale. Se il versante normativo è già in grado di far fronte alla questione, ciò che resta da fare è esattamente ciò che manca; lavorare per un’integrazione sociale reale. Iniziare a ragionare in termini di “l’altro sono io”, non per spirito caritatevole, ma perché la convivenza è un dato di fatto e solo gestendola cercando di costruire un interesse comune a entrambe le parti si può sperare di renderla pacifica. Dipingere l’altro come radice di ogni male serve solo a scagionare noi stessi e a rinnegare le nostre responsabilità.
E qui vengo alla seconda riflessione, quella sul patriarcato: come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza.
Come spesso sta accadendo, si pensi anche alla recente riforma del codice della strada, evidentemente il Ministro crede che le condotte sbagliate si possano cancellare per decreto, per cui io dichiaro punibile un certo comportamento e questo automaticamente scomparirà. Come dimostra l’intera storia dell’uomo, purtroppo o per fortuna non è così. O meglio, per quanto quello normativo sia senz’altro sia un passaggio necessario, non può di certo bastare, come non possono bastare le quote rosa in politica o nei Cda. Perché il Gender Gap nel nostro Paese, è una realtà concreta, al punto che nella speciale classifica del World Economic Forum siamo 87esimi e abbiamo perso altre 8 posizioni rispetto allo scorso anno. Quanto a emancipazione politica, parità salariale e riconoscimento sociale abbiamo moltissimo lavoro da fare, e di fronte a simili dati, dovremmo avere il coraggio di ammettere che l’attuale società italiana è profondamente inadeguata a garantire pari opportunità alle donne. E come ha dichiarato la giornalista della Stampa Cuzzocrea: Non esiste libertà per una donna se non c’è la libertà economica di lasciare una casa in cui il marito la picchia. Come non c’è libertà se non c’è un supporto forte dello Stato per le donne che decidono di denunciare, prima durante e dopo il processo. Non c’è libertà se la vulnerabilità sociale è talmente forte da rendere la maternità una pregiudiziale per il futuro lavorativo. E non c’è libertà nemmeno se ridiamo quando durante una partita di calcio dilettantistico si urla all’arbitro donna che deve andare a fare il sugo.
La verità è che c’è davvero tanto bisogno di educare all’affettività e ai sentimenti, ma noi adulti ancor prima di bambini e ragazzi. Noi che nella quotidianità siamo l’esempio vivente di una cultura che percepisce il legame affettivo come un bene di possesso, un qualcosa che una volta ottenuto è mio, a mio totale e principale beneficio che si realizza attraverso il mezzo di un’altra persona. Non esiste che quanto raggiunto possa cambiare, ammenoché ovviamente non sia io a volerlo. E in questo grande delirio narcisistico che abbiamo scambiato per amore non c’è spazio per accettare l’eventualità della delusione, l’eventualità di essere deludenti noi stessi. Poi che c’entra, Turetta e Impagnatiello sono dei mostri, sono l’esemplificazione del male e io non potrei mai essere come loro. Che li lincino, devono buttare via la chiave e non farmeli vedere mai più. Ma nell’oblio che seguirà la giusta punizione che consegue ai loro crimini non saremo mai capaci di relegare anche la nostra attitudine al male. Perché il male non prende forma in un istante, il male nasce e cresce in ognuno di noi attraverso dinamiche tanto comuni da essere banali. È una stratificazione di comportamenti, l’accumularsi di una lunga serie di errori, vigliaccherie, menzogne che a un certo punto precipitano come una valanga incontrollabile. E attraverso questo lato oscuro fatto di piccole bugie, piccole omissioni, finalizzate a proteggere la nostra percezione della realtà ci passiamo tutti, è nella nostra natura. Il male è lo stratificarsi di tutti quei comportamenti innocentemente negativi che tutti compiamo quotidianamente, o meglio, il lasciarsi andare all’inerzia dei conflitti messi sotto il tappeto, dice Rick DuFer in un video sul suo canale. E io penso che abbia ragione, è quando perdiamo il coraggio di accettare gli errori, chiedere scusa e ripartire che perdiamo la nostra umanità e ci “ammaliamo di menzogna”, quella per cui sono le aspettative a dover plasmare il mondo, non il contrario. Educhiamoci all’affettività e al rispetto dell’altro, perché l’altro siamo noi.