1

Lacrime di coccodrillo per Satnam Singh

“Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano”, è con queste parole che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato la terribile vicenda del bracciante indiano Satnam Singh, facendo applaudire – quasi – tutto il Senato della Repubblica. Eppure anni e anni di inchieste sul tema, rendono davvero difficile pensare a questa vicenda come all’espressione di un caso isolato di mala gestio aziendale. Anni di campagne pubblicitarie che sottolineano quanto, se possibile, il prezzo del cibo riesca a scendere ancora promettendo standard qualitativi sempre più alti. Anni in cui tutto il sistema cibo ha lavorato per costruire il più grande degli alibi: ciò che mangiamo deve costare poco perché le persone sono disposte a pagare poco per quel tipo di merce. Al di là di ogni ragionevolezza, al di là di ogni sostenibilità economica, la gente vuole pagare poco perciò il prezzo deve essere basso punto.

 

E il punto sta tutto qui. Quei soldi che non compaiono nel prezzo finale del prodotto agricolo – ma non solo – che andiamo ad acquistare, ma che comunque sono necessari per produrlo e commercializzarlo, se non li paga il consumatore non è che sono svaniti; semplicemente li paga qualcun’altro. Che sia l’ambiente, quando per risparmiare sui costi di gestione si adottano pratiche agricole illegali e dannose – si pensi agli incendi per ampliare le aree di pascolo nel sud italia o lo smaltimento illegale dei liquami degli allevamenti, giusto per fare 2 esempi grossolani – o che siano i braccianti, schiavizzati e sottopagati, o altri ancora. Il punto resta lo stesso, ogni volta che qualcosa si paga evidentemente troppo poco, è perché il costo mancante sta ricadendo sulle spalle di qualcun altro. E il più delle volte sulle nostre stesse spalle, che alimentiamo un sistema economico incentrato sullo sfruttamento dei sussidi di disoccupazione per far lavorare, in nero, i dipendenti senza doverli pagare o dovendolo fare solo in parte. Questo lo stratagemma con cui si è piegata la peculiarità del mondo agricolo per cui le giornate di lavoro vengono mandate via solo dopo che si sono svolte. Una cosa necessaria per un tipo di lavoro che ha a che fare quotidianamente con una variabile indipendente come il meteo – in caso di pioggia non si lavora, ma io lo so solo a fine giornata se la pioggia mi ha permesso di lavorare 2 ore, 5 o nessuna – ma che, senza adeguati controlli, ha evidentemente portato all’emersione di fenomeni come questo. Ma perché direte voi? Semplice, perché l’agricoltura ha anche un’altra peculiarità: è l’unico settore produttivo in cui il prezzo lo fa chi compra, non chi vende. Il valore delle merci viene calcolato su quanto le persone sono disposte a spendere per acquistarle, non dal costo necessario per produrle. Ecco trovato il punto focale. Come può un imprenditore mantenere un sano flusso di cassa tra entrate e uscite, se non può farsi pagare il prezzo necessario a sostenere la propria attività? Qui è stato chiarissimo al tempo Karl Marx: abbassando i costi relativi ai mezzi di produzione umani, gli unici negoziabili – il costo di un macchinario, visto che lì il prezzo lo decide chi vende, non può essere oggetto di negoziazione se non in minima parte. Ecco qua svelato il segreto di pulcinella. In tempi di Intelligenza Artificiale e algoritmi che memorizzano a che ora cerco del cibo online per riproporre il medesimo stimolo pubblicitario negli stessi orari, non penso sia inimmaginabile pensare a incrociare fatturato, costo dei dipendenti e prodotto commercializzato per scoprire se c’è qualcosa di strano.

E personalmente rifiuto anche di accettare che la responsabilità sia da imputare ai consumatori che frequentano supermercati e GDO. È chiaro, ciascuno di noi con le proprie scelte può decidere quale modello produttivo – ammesso che la comunicazione che mette in atto sia veritiera – premiare e quale no; il punto però resta che in uno Stato di diritto se esistono delle regole, vanno fatte rispettare. E non dovrei essere io con il carrello in mano a vivere male perché se risparmio rischio di favorire un’azienda che sfrutta i lavoratori o l’ambiente. Perché se portiamo il ragionamento su questo piano vuol dire che implicitamente stiamo accettando come inevitabile il fatto che il sistema, il modello produttivo, funzioni così senza poter essere altrimenti. Tanto dal punto di vista etico, quanto economico, la cosa mi sembra semplicemente inaccettabile. E probabilmente parte della soluzione potrebbe risiedere proprio in quella strategia Farm to fork promossa dall’UE per accorciare la filiera del cibo. Ridurre il numero di intermediari è il modo più sicuro per far sì che il grosso del prezzo pagato dal consumatore finisca nelle casse del produttore anziché andare a gonfiare le tasche dei distributori. È  il modo migliore per ridurre le emissioni legate al traffico merci, in qualunque forma si consideri, ma oltre a questo, è anche il modo giusto per avvicinare le persone al valore del cibo. Che non sarà mai veramente solo una merce, come spesso viene trattato dal mondo agroindustriale e commerciale, ma veicolo di benessere e di valori ben precisi.

 

Ciò che è accaduto a Satnam Singh nell’azienda Lovato a Latina è mostruoso, ma pur nella straordinarietà dell’evento, le condizioni che stanno alla base di un simile evento sono tutt’altro che espressione di un caso isolato. Io non ci credo che tutti gli agricoltori italiani mirano a quel modello. E non credo nemmeno che tra tutti quelli che sfruttano i propri lavoratori non ce ne siano almeno alcuni che preferirebbero non farlo. Ma la chiave per cambiare il sistema di produzione del cibo è cambiarne il sistema di distribuzione. A evidente danno di gruppi d’interesse enormi che comporterebbero per la politica che dovesse andare ad affrontare la questione, resistenze importanti e con grandi capacità di pressione. Ma se lo Stato si tira indietro, se la massima espressione di comunità, di collettività che fa valere le proprie ragioni e il proprio senso di giusto sopra ogni cosa, desiste per timore del peso del denaro, allora va a finire che la disumanità condannata in Senato dal presidente del consiglio ci appartiene e come. E tutti questi anni passati a gestire le politiche migratorie girandoci semplicemente da un’altra parte mentre le persone morivano, ci hanno abituato talmente tanto a farlo, che ormai non serve più nemmeno che sprofondino in mare; basta semplicemente buttarli fuori dalla nostra proprietà con il braccio mozzato in una cassetta per farli sprofondare nell’indifferenza. Fatta inversione, tutto scompare.