Poter protestare è una questione di motivazione
Nel giro di qualche settimana la protesta degli agricoltori (ne abbiamo già parlato qui) sembra essersi spenta e anche l’ondata di indignazione che aveva investito l’opinione pubblica torna a sopirsi. Così come torneranno nell’ombra i seri problemi che l’hanno fatta emergere, per continuare a scavare il solco sempre più profondo che separa il nostro modo di vivere, dalla necessità di continuare a mangiare per farlo. Ma la riflessione più interessante che sottostà a questa vicenda è probabilmente un’altra. Perché le forze dell’ordine non hanno agito in conformità al nuovo Decreto Sicurezza che lo scorso novembre ha introdotto il reato di blocco stradale? Perché nessuno dei manifestanti è finito di fronte a un giudice rischiando da sei mesi a due anni di carcere?
La storia di questi provvedimenti tanto severi nei confronti delle proteste organizzate che ostacolano la circolazione sulle strade, parte nel 2018, quando i primi attivisti di Ultima Generazione decidono di sedersi in mezzo al Grande Raccordo Anulare costringendo tutti gli automobilisti in transito a fermarsi. L’ondata di indignazione generale che seguì lo sgombero coatto operato dalle forze dell’ordine, fu talmente forte, così come lo furono le reazioni degli stessi automobilisti coinvolti, da offrire l’occasione giusta al Ministro Salvini per dare sfoggio della propria capacità di intervenire tempestivamente per risolvere i veri problemi del Paese. Così varò un Decreto sicurezza (D.L. 113/2018) che dall’ottobre 2018 sancisce il rischio da 1 a 6 anni (per intenderci, in Italia chi viene condannato per associazione a delinquere rischia da 1 a 5 anni), per camuffare da questione di ordine pubblico, l’ostilità ad ogni forma di dissenso, soprattutto quello ecologista. A rincarare la dose ci ha pensato lo scorso novembre il governo Meloni, che oltre a trasformare il blocco stradale da illecito amministrativo a reato quando viene operato da più persone – cioè sempre -, ha disposto pure la possibilità di ricorrere al “DASPO urbano”, una misura cioè analoga a quella che prevede l’esclusione dalle manifestazione sportive per chi assume comportamenti violenti.
E fino a qui in realtà, la questione è ancora comprensibile. Si può essere più o meno d’accordo con il contenuto di questi provvedimenti, ma rimane la piena legittimità del legislatore democraticamente eletto di attuare le politiche per le quali i cittadini lo hanno scelto. Il problema sorge invece quando, questioni di carattere formale, come la pubblica sicurezza che si intende difendere da simili azioni, diventano questioni di contenuto, e cioè del perché si protesta mettendo a rischio la pubblica sicurezza. Per quale motivo un blocco stradale fatto con i trattori dovrebbe godere di un trattamento diverso rispetto a quello fatto utilizzando solo i propri corpi? Passi il fatto che l’opinione pubblica preferisca schierarsi per la causa degli agricoltori piuttosto che con la legittima volontà delle future generazioni di avere un mondo non stravolto dai cambiamenti climatici – per inciso, si fanno sempre più evidenti i segni del rischio di un collasso imminente della corrente del Golfo a causa dell’aumento della temperatura dei mari, eventualità che porrebbe decisamente in secondo piano la questione del 4% di superfici da lasciare incolte o i sussidi per il carburante, tanto per gli agricoltori quanto per tutto il sistema alimentare europeo-, ma è giusto che la legge operi con tanta discrezionalità? È giusto che Silvia, Ettore e Mida, i 3 ragazzi che lo scorso 2 novembre hanno messo in atto un blocco stradale a Bologna il 18 gennaio erano già stati condannati a sei mesi, con pena sospesa, per violenza privata e interruzione di pubblico servizio, mentre per le lunghe code al casello di Orte e Bettolle, nessuno sia stato trattato allo stesso modo? E qui non si parla tanto della pena, perché è in capo solo alla magistratura la decisione di infliggerla o meno, si tratta proprio della gestione dell’evento in sé. La tempestività della repressione nei confronti di manifestazioni comunque pacifiche di ragazzi italiani che difendono la propria causa mettendoci la faccia e andando anche in tribunale se serve pur di mettere in luce il problema che grava sul loro – e di tutti – futuro, e, non solo la tolleranza, ma addirittura l’accondiscendenza e il sostegno nei confronti dei blocchi degli agricoltori.
Il rischio è che la possibilità di protestare in Italia diventi soggetta ad una censura determinata dall’oggetto della protesta. Una cosa decisamente troppo simile al reato d’opinione in un Paese che si ritiene democratico; capace di sorvolare con leggerezza sopra i video di Acca Larentia ma condanna in meno di 3 mesi 3 ragazzi che hanno protestato in maniera pacifica. Che il governo Meloni non sia di certo il più sensibile sulle questioni ambientali è un fatto ormai appurato, così come lo è il fatto che la generazione del boom economico sia assolutamente determinata a difendere il proprio status a qualunque costo, e questo, per quanto contrario alle idee di molti, fa parte del gioco. Ci sta, come si dice fra amici. Quello che non ci sta è che se protesto per il clima finisco in tribunale, se protesto per la Palestina arrivano le manganellate – o come piace dire ai giornalisti “le cariche di alleggerimento” – mentre se una grossa fetta del bacino elettorale di destra mette i trattori in strada per chiedere non si sa bene cosa – non ci sono 2 intervistati fra gli agricoltori manifestanti che abbiano rivendicato la stessa istanza – arriva il Ministro per capire come aiutarli. Sicuramente, se l’uomo morto d’infarto durante un blocco del traffico per le proteste degli agricoltori a Catanzaro fosse deceduto in occasione di un blocco ecologista, già staremmo parlando di inasprimento delle pene e processi in corso.
Le cose in questo Paese dal debito pubblico mostruoso, non vanno bene e lo sappiamo tutti, ma perché solo alcuni hanno il diritto di lamentarsi?