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Tra marketing e certificazioni H, cosa vuol dire insegnare oggi in una scuola italiana?

a cura di Riccardo Tizzi

 

Il tema del mio contributo di oggi è forse un po’ troppo autobiografico, ma credo che riguardi tutti noi, in modo particolare le giovani generazioni. Senza pretese di completezza né di oggettività assoluta, vorrei infatti tracciare uno schizzo su alcuni aspetti della realtà quotidiana di un insegnante di scuola superiore in Italia, quantomeno in Umbria. Ne ho girate diverse nel corso degli anni prima di stabilizzarmi, ma è possibile individuare alcune costanti. Non posso che partire dalla mia percezione, dato che non seguo direttamente la politica scolastica, avvertendo un forte senso di distacco fra il vissuto giornaliero e le decisioni prese ai “piani alti”. E credo sia una sensazione diffusa in molti. È curioso notare come persone immerse in una realtà riescano raramente a guardarla da lontano e con distacco, rendendosi conto di quanto stia davvero succedendo. Anche perché la proverbiale e pachidermica lentezza del nostro amato Paese fa sì che per quando ci accorgiamo di un cambiamento è troppo tardi per opporvisi, e d’altra parte siamo così abituati alle intenzioni che cambiano a ogni colpo di vento o cambio di governo che nessuno crede che sia davvero possibile un mutamento stabile, sia esso per il meglio o per il peggio secondo il punto di vista di ognuno. Salvo poi ritrovarci con le questioni già decise e senza più la possibilità di farci niente.

 

Purtroppo non è più il tempo dei supereroi insegnanti che riuscivano a coniugare un’assoluta professionalità con un impegno politico-civile altrettanto rigoroso. Oggi prevalgono, in me per primo, il disincanto e la scelta di concentrare tutte le energie sul far bene il proprio lavoro e seminare qualcosa fra i ragazzi. Sembra vile dirlo ma mi accontento. D’altra parte anche la partecipazione sindacale è estremamente frammentata e non è in grado di offrire messaggi chiari e comprensibili capaci di unirci in eventuali rivendicazioni, o di creare comunque un sentire condiviso. Purtroppo a mio avviso si insiste troppo sull’indizione di un poco credibile sciopero a settimana (delle varie sigle a turno) e poco sulle condizioni di lavoro, sulla costante minaccia di assurde responsabilità penali o di ricorsi per “vizi di forma” in caso di provvedimenti nei confronti degli alunni, né si richiama alla professionalità di fronte a comportamenti poco adeguati da parte dei nostri stessi colleghi.

 

Premesso tutto ciò, vorrei richiamare l’attenzione su alcune questioni che dal mio punto di vista meritano una riflessione.

 

La prima, parlando delle scuole superiori, è quella del cosiddetto “orientamento in entrata”. Dietro questa definizione vagamente orwelliana non c’è alcun desiderio di aiutare i ragazzi delle scuole medie nella scelta del loro percorso scolastico e di vita, in base alle attitudini personali e a una realistica considerazione delle aspettative di vita e lavorative, nonché delle necessità collettive. Si tratta in realtà di un enorme processo di promozione e di vendita messo in atto da tutti gli istituti di istruzione superiore, in cui le scuole devono farsi pubblicità in ogni modo, con ingente dispiegamento di energie economiche e creative, al fine di attrarre clienti, cioè studenti. Da qui il proliferare di iniziative quali “open day”, “studenti per un giorno”, presentazioni e lezioni simulate presso le varie scuole medie, pagine comprate sui quotidiani, cartelloni pubblicitari anche ambulanti, intasamento delle pagine social con stupende e variopinte iniziative. 

 

La responsabilità di tutto ciò non è ovviamente dei singoli centri educativi. A monte di questa concezione dell’orientamento scolastico come marketing c’è ovviamente una ragione economica. Banalmente, con l’autonomia scolastica, da oltre vent’anni è stato introdotto il principio della competizione fra scuole pubbliche. Gli istituti con più iscritti avranno più fondi, migliori strutture, maggiori opportunità per gli studenti. Di conseguenza avranno anche maggiori probabilità di offrire un’istruzione di qualità. Ma la domanda che dobbiamo porci è: ha senso una concorrenza di questo tipo tra istituti pubblici, che dipendono dallo stesso Ministero e che dovrebbero collaborare a un sistema educativo di qualità (il quale tra l’altro dovrebbe essere garantito a tutti dalla Costituzione, oltre che dalla logica)? Ha senso lasciare pressoché abbandonati gli istituti con meno iscritti, magari siti in quartieri difficili e con studenti con un background socio-economico problematico? Non è tutto questo un formidabile strumento per la perpetuazione e l’incremento delle disuguaglianze, che pure la scuola si vanta di contrastare a parole? Infine, siamo sicuri che la concorrenza sui numeri non si possa trasformare in una pericolosa “asta al ribasso” volta alla soddisfazione dei clienti a tutti i costi, con potenziali ripercussioni negative sulla qualità degli insegnamenti? Purtroppo non tutta l’utenza sceglie in base alla qualità. C’è una fetta di mercato (visto che in termini di marketing dobbiamo ragionare) che sceglierà piuttosto la convenienza.

 

La stortura del sistema, purtroppo, si potrebbe risolvere solo con una presa di coscienza collettiva seguita da una rivoluzione copernicana, circostanza davvero difficile da immaginare.

 

Altro problema rilevante è l’interpretazione erronea che si fa spesso delle certificazioni, sia nei casi di disabilità che di Disturbi specifici dell’apprendimento o altre situazioni particolari. Senza entrare nel merito dell’appropriatezza delle diagnosi, non essendo assolutamente un esperto, mi limito a far notare che in molti casi, per fortuna non la totalità, e tralasciando quelli più seri di programmazione differenziata che non conduce al diploma, la certificazione è diventata un salvacondotto totale, assolutamente dannoso per lo studente stesso. Delle due l’una: o lo studente è in grado di raggiungere degli obiettivi, seppur minimi, ma comunque assimilabili a quelli degli altri compagni, oppure no. Regalare un diploma a fronte di un impegno nullo, vuol dire creare nel ragazzo aspettative che spesso poi il mondo di fuori distrugge in un attimo e con violenza, ma soprattutto instillare nella sua mente che gli obiettivi si raggiungono senza sforzi, il che è altamente diseducativo non solo per gli interessati, ma a volte anche per gli altri ragazzi, che sono ignobilmente portati dalla loro ingenuità a contestare i trattamenti “di favore” riservati agli alunni con difficoltà. È bruttissimo da riconoscere ma purtroppo ho assistito anche a questo. I docenti sono paralizzati dalla paura dei ricorsi di cui sopra, e la frase ricorrente è “non può avere un insuccesso, ha la certificazione…” Direi che è una concezione un po’ ipocrita della tanto sbandierata inclusione, la quale rischia paradossalmente di rendere più complicata la vita dei ragazzi con disabilità, durante gli anni scolastici e ancor più una volta terminati i cicli di istruzione.

 

Potrei continuare a dilungarmi su aspetti che tocco con mano quotidianamente, come l’impiego dei famigerati fondi P.N.R.R., l’estenuante lentezza e l’inefficienza della macchina amministrativa, lo strapotere delle agenzie che intercettano i fondi per mobilità europee con obiettivi e programmi non sempre chiari, comunque funzionali al loro uso in fase di orientamento/marketing, l’impossibile corsa a eliminare qualsiasi forma di soggettività nelle valutazioni, imbrigliando i docenti in griglie e descrittori inevitabilmente e di nuovo soggettivi… Ma non si possono affrontare tutti i temi in una volta, e credo che per oggi quanto detto possa essere sufficiente a farsi un’idea della situazione.

 

Il quadro presenta delle criticità evidenti, ma all’interno della scuola ci sono anche possibilità di apportare cambiamenti e correggere la rotta sempre che il legislatore chiarisca inequivocabilmente alcuni dei punti presi in esame, dando ai docenti sicurezze anziché lasciarli in balia di norme ambigue applicate in modo discutibile.   Nonostante tutto, adoro lavorare nella scuola pubblica italiana, e spero che un minimo di riflessione e di dibattito possano spingere a una sempre maggiore consapevolezza delle situazioni assurde in cui spesso dobbiamo destreggiarci, portando a un miglioramento di questa elaborata macchina chiamata istruzione pubblica. Che d’altronde è forse l’unico mezzo che abbiamo per formare cittadini con un minimo di spirito critico e dar loro la possibilità di combinare qualcosa con le loro vite.