Una nuova prospettiva per affrontare la crisi dell’agricoltura
Quella che si concluderà tra pochi giorni, è senz’altro una delle estati più complesse degli ultimi anni, soprattutto dal punto di vista agricolo. Non solo per il caldo record di luglio o per le sfide che il cambiamento climatico impone all’intero comparto, ma anche per una serie di fenomeni connessi che dovrebbero spingere gli operatori del settore ad avviare una seria riflessione su quale futuro dobbiamo progettare per l’agricoltura.
I dati che fornisce Coldiretti sul bilancio di questa estate in Umbria sono piuttosto sconfortanti e tutti contraddistinti dal segno meno. Si va dal – 40% della produzione di grano – che oltre alle rese ha visto precipitare anche il peso specifico, parametro fondamentale per determinare il valore economico e alimentare della produzione – al – 70% del miele. Il tutto mentre si attendono due tra le stagioni di raccolta più importanti della nostra regione: l’uva e le olive, con delle premesse altrettanto negative, perché si parla tanto di un dimezzamento dei grappoli quanto di livelli di infestazione da mosca dell’olivo preoccupanti.
Questo purtroppo è il risultato di un inizio primavera estremamente siccitoso – tutti ricorderanno le immagini di chi raggiungeva a piedi l’Isola dei Conigli sul lago di Garda – seguito da un maggio molto piovoso – i dati della Regione Umbria per Bastardo parlano di 87 mm di pioggia, seguiti da 45 a giugno e altri 41 a luglio, più del doppio della media degli ultimi 4 anni – e ancora da un’estate di nottate tropicali. Una convergenza micidiale che oltre ad impedire lo svolgimento di tante pratiche agricole per l’inaccessibilità dei campi, pieni d’acqua fino alla stagione della trebbiatura, ha favorito la proliferazione di numerose fisiopatie che solo un’attenta e massiva campagna di intervento con trattamenti fitosanitari ad hoc, è riuscita a limitare. Risultato: nell’anno che ha registrato un incremento medio del 30% dei costi di produzione (sementi, fertilizzanti, carburante,..), le rese sono state tanto basse da mettere a dura prova la sostenibilità economica di centinaia di aziende. Neanche il mancato rinnovo dell’accordo sul grano tra Russia e Ucraina è servito, pur nella sua dimensione tragica sul lato umano, a risollevare le sorti della stagione perché il prezzo non solo non è aumentato come ci si poteva aspettare, ma anzi continua a stagnare su valori tutt’altro che compatibili con le spese sostenute a inizio stagione. Un trend riscontrabile in tanti settori e che sommato al peso dell’inflazione, ha portato l’industria alimentare a perdere il 4,5% a luglio (base annua).
Ora, questo scenario potrebbe aprire a innumerevoli letture ed interpretazioni, quella che segue, si interseca con un altro elemento di grande rilievo che ha interessato l’agricoltura quest’estate: l’approvazione, da parte del Parlamento Europeo di una serie di emendamenti per eliminare l’obiettivo di ridurre del 10% la superficie agricola coltivabile, in seno al Regolamento sul Ripristino della natura. Battaglia che le sigle sindacali del settore si sono subito intestate perché un simile provvedimento avrebbe inevitabilmente portato a incrementare la quota di prodotti importati dall’estero per compensare le perdite. Ciò che accomuna questo aspetto legislativo e quanto sopra raccontato è l’approccio. L’approccio ad un settore che viene progettato per quello che non è: un mero sistema produttivo. Alla stregua di ogni altro processo produttivo, le aziende agricole e il settore in generale, vengono pensati come sistemi economici con un numero più o meno complesso di variabili che a seguito di attenta programmazione possono essere affrontate e volte a nostro vantaggio. Il punto è però, che molte delle variabili tipiche del contesto agricolo sono indipendenti (quelle legate al clima in primis) e la frequenza del loro impatto è in costante aumento (l’estate 2023 si chiude con una media di 22 eventi estremi al giorno) e per quanto le coperture assicurative possano contenere i danni per il singolo, la verità è che dopo un’alluvione come quella subita dall’Emilia Romagna lo scorso maggio, importare è l’unica possibilità. E meno male che c’è aggiungo io, per ricordare a tutti gli ultras che la fame si è sconfitta proprio così. Altra storia è definire standard e condizioni affinché la cosa risponda ad una logica di necessità invece che di profitto.
Perciò la vera questione è un’altra: si può continuare a investire in un sistema agricolo che mira a produrre cibo a oltranza perché è solo con la sovrapproduzione che i prezzi restano bassi? Quale costo ha tutto questo, non solo sull’ambiente, ma sulle aziende che, al netto delle variabili dette sopra, ogni anno devono pagare sulla pelle il costo del crollo tendenziale del saggio di profitto degli altri?
La verità è che probabilmente ridurre la superficie coltivabile, soprattutto in zone dove è inficiata la stessa redditività economica da condizioni oggettive come l’eccessiva pendenza dei campi, o l’esposizione non ottimale o ancora l’essere collocata all’interno di area a rischio erosione, non sarebbe solo opportuno, ma anche più remunerativo per tutti. Minor quantità di prodotto aumenta il valore del prodotto stesso, ed è chiaro che questo si andrà a ripercuotere sulle tasche dei consumatori, ma è anche vero che accorciando per davvero le filiere la variazione può essere contenuta. Per non parlare degli altri innumerevoli benefici derivanti dal consumare meno cibi preconfezionati o resi a lunga conservazione.
Come scrisse Seneca all’amico Lucilio, Il tempo della vita non è poco, è che ne sprechiamo molto. Ecco, così è anche il cibo. Farne meno e farlo bene dove è intelligente e c’è bisogno di farlo. Tutto il resto sono solo speculazioni.