Nell’anno in cui il ritorno della presidenza Trump porta il mondo a rispolverare relazioni internazionali all’insegna della tracotanza e della pressione politica, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite risponde nominando il 2025 Anno delle Cooperative. O meglio, la cosa era già stata decisa lo scorso anno, quindi più che una risposta si dovrebbe parlare di misura preventiva inconscia. Come se i rappresentanti di tutto il mondo avessero potuto immaginare che i venti del futuro avrebbero iniziato a soffiare in direzione di frammentazione e diffidenza reciproca, anche tra Paesi amici e alleati, e per questo hanno pensato di riportare al centro quell’attitudine che è l’essenza stessa dell’essere umani: lo stare insieme.
Si è tenuta lo scorso novembre a Nuova Delhi la Conferenza Globale delle Cooperative per celebrare come le cooperative costruiscano prosperità per tutti e per lanciare la campagna del 2025 Anno Internazionale delle Cooperative. Azione che di per sé potrebbe non essere molto più di uno slogan, senonché invece disegna una prospettiva molto chiara nel suo documento finale: dalle difficoltà che il mondo attuale ci pone, si esce solo insieme. Impegnare tutti i Paesi membri ad elaborare politiche e progetti finalizzati a sviluppare e stimolare la cooperazione fra persone, dentro e fuori dai propri confini nazionali, costituisce una straordinaria risposta a quell’istinto, figlio del sistema economico capitalistico, per cui da soli viene tutto meglio. Però, se è senz’altro vero che in uno si va più veloci, non bisogna dimenticare che in compagnia si va più lontano. Come disse l’antropologa statunitense Margaret Mead infatti, la civiltà inizia nel momento in cui troviamo i resti di un femore rotto e poi guarito, nel momento in cui un collettivo coopera per un fine comune; e farlo insieme significa anche prendersi cura dell’altro.
In Italia, il tema delle cooperative rosse come espressioni del male in sé ha già da tempo inondato le pagine di molti giornali lanciando una sorta di luce oscura sull’istituzione stessa della cooperativa, sull’ideale stesso che sta alla base del lavoro gestito e realizzato in maniera collettiva. Questo ovviamente non significa che il mondo delle cooperative sia un posto meraviglioso in cui tutti i lavoratori sono tutelati e felici, ma di certo non lo è neanche quello delle aziende private con i sottoposti a libro paga. In questo Paese però ci piace sempre tanto pretendere di elaborare teorie universali da casi particolari, nel bene e nel male, mentre invece sarebbe senz’altro più utile usare i casi particolare, proprio nel loro dar forma a situazioni contrastanti, per costruire un percorso di sviluppo capace di imparare dai propri errori. Senza bisogno di gogne mediatiche utili a tutto fuorché alla vita reale. Perché poi la vita reale, per fortuna è fatta di altre cose, anche di progetti in cui la collettività rimedia alle sfortune o agli errori dei singoli, come nel caso dei workers buyout. Una pratica nella quale l’Umbria è seconda solo all’Emilia Romagna per diffusione e che si riassume in un concetto molto semplice: lavoratori che decidono di rilevare un’azienda per la quale lavorano, investendo l’anticipo sulla disoccupazione e il TFR per evitare il fallimento, oppure per rilanciarla una volta fallita, oppure ancora quando non c’è ricambio generazionale ai vertici.
Stando all’ultimo censimento di Legacoop Umbria del 2022, la nostra regione vanta ben 15 aziende che sono state salvate dai dipendenti attraverso la costituzione di una cooperativa che attraverso l’esperienza maturata negli anni e il supporto di istituti di credito e investitori privati, grazie alla formula del rent to buy (affitto a riscatto) può mettere a disposizione il proprio lavoro per ricomprare un’attività passata in mano alle banche o in successione ereditaria. Così oggi, grazie alla Legge Marcora – L. 49 del 27/02/1985 – che ha istituito un Fondo destinato alla salvaguardia dell’occupazione attraverso la formazione di imprese cooperative, I muratori Baschi, la Keller Grigliati, la CMT, la 2012 Autotrasporti, la Fail, la GBM, la Stile,Umbria Legno, la Fvm, la Wald&co, Ceramiche Noi, la Smart, Gentili Trasporti, La Legatoria Tuderte e il Civicocentotrenta4, costituiscono un fulgido esempio della forza della cooperazione. Ed è proprio questa dimensione di condivisione di guadagni e responsabilità che garantisce a questo tipo di imprese una longevità media superiore a quella delle aziende tradizionali, dando vita anche a realtà in grado di spiccare come Ceramiche NOI che negli ultimi anni è stata selezionata per realizzare alcuni dei premi assegnati al Festival di Cannes (2023) e a quello di Venezia (2024).
A di là della retorica di parte quindi, la scelta di puntare sul percorsi di gestione condivisa pare più che mai promettente e stimolante, tanto più se si considera che un recente studio di Unimpresa segnala come ben il 25% dei 4 milioni circa di piccole imprese al di sotto dei 10 dipendenti (che rappresentano oltre il 94% delle imprese attive in Italia – fonte Legacoop Umbria) nei prossimi anni vedano messa a rischio la propria continuità a causa della congiuntura. Che fra le altre cose porta con sé anche la carenza di manodopera, soprattutto in aree rurali come la nostra dove la formula della cooperativa potrebbe andare a sopperire a tutta un’altra serie di problematiche che a partire dalla dimensione economica si riversano anche sul piano sociale. Penso ad esempio a come, nel settore agricolo, l’invecchiamento della popolazione stia portando rapidamente al deperimento del patrimonio paesaggistico e agrario per mancanza di addetti. Il che poi si traduce in abbandono definitivo o svendita in favore di grandi realtà. Con conseguente danneggiamento anche di quel caratteristico sistema mosaico del paesaggio umbro per cui si sta valutando una proposta quale patrimonio UNESCO per la sua peculiarità. Ecco, perché non immaginare una soluzione come quella individuata nel comuna piemontese di Canelli, dove la cooperativa Maramao ha pensato bene di creare un percorso di integrazione per migranti che nella cooperativa agricola hanno trovato non solo un’opportunità concreta per ritagliarsi un posto attivo all’interno del nostro Paese, ma anche l’opportunità di fornire servizi necessari al territorio? Perché non dovrebbe essere possibile immaginare che ogni piccolo comune rurale investa in una Maramao o in una cooperativa di comunità dove, attraverso lo scambio cooperativo, si creano servizi e lavoro nell’interesse di un’intera comunità?
Se non sapremo evolvere in fretta il nostro modello di civiltà, quelle tradizioni a cui siamo tutti tanto cari in questo Paese finiremo per perderle, perché quando le tracce della memoria rimangono monumenti isolati, ben presto diventano ruderi.