CHIUDE IL DADOTRATTO. Gualdo Cattaneo perde anche l’ultima attività in piazza
Le luci di Natale non si sono ancora spente che già il nuovo anno porta con sé le prime notizie nefaste.
Domenica scorsa, 15 gennaio, ha aperto per l’ultima volta le sue porte l’enoteca ristorante DadoTratto in piazza Umberto I a Gualdo Cattaneo. La notizia circolava già da qualche settimana e, per quanto prevalesse l’incredulità, o forse un pizzico di speranza, ad alimentare le voci vi erano le inusuali chiusure del locale.
Insomma, i sospetti erano fondati, le voci veritiere e la conferma della notizia è arrivata dal titolare stesso la scorsa settimana.
L’incredulità ha lasciato presto il posto al dispiacere, alla tristezza e al senso di smarrimento: sì, perché il Dado, così veniva affettuosamente chiamato, era ormai diventato, in questi ultimi anni, un punto di ritrovo, di aggregazione, ormai l’ultimo rimasto in piazza a Gualdo. L’ultimo giorno di esercizio dell’attività, domenica scorsa appunto, non poteva di certo passare in sordina. Perciò tutti gli habitué dell’enoteca, gualdesi e non, amici prima di tutto, si sono dati appuntamento al Dado per un’ultima bevuta e per stringersi attorno a Davide che in questi anni ha permesso che ci fosse sempre una luce accesa in piazza, un luogo in cui ritrovarsi e dove tutti ci sentivamo un po’ come a casa nostra.
Si conclude così un capitolo, di certo non la fine del libro. Un nuovo proprietario ha bussato alle porte del Dado riconoscendone le potenzialità. Tra pochi mesi il locale riaprirà nuovamente le porte, giusto il tempo di fare qualche lavoro di ristrutturazione. Nuovo nome, nuova gestione, nuova mission.
Il 2023 porta con sé novità per il capoluogo con qualche attività che riaprirà nei prossimi mesi sotto l’egida di un solo proprietario, ca va sans dire.
Ad ogni modo, al momento Gualdo Cattaneo perde un altro set nella partita per la sopravvivenza dei piccoli borghi, privata di un altro pezzo.
Abbiamo numerose volte trattato l’argomento negli anni, tanto lo sentiamo permeato nelle nostre vite (ti consiglio di leggere qui, qui, qui e qui).
Per quanto i nostri paesi arranchino sempre di più perdendo abitanti e servizi, ormai da qualche anno è stata riscoperta una caratteristica tutta italiana: il policentrismo culturale sotto l’insegna del termine “borghi” e affini. L’Italia è composta da tante e complesse realtà, in cui registriamo poche grandi città, pochissime metropoli, molte città di medie dimensioni, una miriade di piccoli comuni a cui fanno capo le frazioni, reti di città, campagne, castelli, coste, colline e montagne; queste vengono così ridotte all’immagine del «borgo». Nel goffo tentativo di rivalutazione si rischia però di perdere la singola identità. Guardiamo ad esempio l’ambito culturale: la storia del «borgo» fa sì che anche la valorizzazione del territorio sia tale solo se inglobata nella goffa egemonia del «turismo petrolio d’Italia»[1], ora implementata dalla corrente ecologista, di una vita con ritmi più lenti, legata alla natura e al mangiar bene per vivere bene, e l’Umbria è un emblema di tutto ciò, con questa immagine ulteriormente forzata dal reiterarsi del romantico slogan “Cuore verde d’Italia”.
Qui non stiamo parlando di uno spettacolo teatrale da mettere in scena per i turisti in cui i villici sono gli attori. Il turismo e la cultura sono certamente dei settori da incentivare e che possono essere preziosi per l’economia della nostra Regione, se opportunamente guidati e gestiti (ne abbiamo parlato numerose volte nei nostri pezzi: qui e qui i più recenti); ma non possiamo vedere tutto questo esclusivamente in un’ottica utilitaristica. Stiamo parlando della nostra terra, dei nostri paesi, delle nostre case, dei nostri luoghi dell’infanzia, dei luoghi dove siamo cresciuti, dove abbiamo scelto di vivere e lavorare (decisione a volte considerata folle e incomprensibile).
Difficile farlo comprendere a chi non ci è nato, difficile far comprendere questo attaccamento e questo affetto.
Se si organizzano giornate di raccolta dei rifiuti non è per creare un palcoscenico perfettamente lindo ma per inculcare nelle persone l’idea di salvaguardia dell’ambiente, di rispetto per noi e per gli altri, di gestire al meglio le risorse, di sostenibilità; se chiediamo sviluppo e potenziamento delle aree pubbliche e del verde è per togliere bambini e ragazzi dalla strada e per creare quegli spazi che tanto ci sono mancati negli anni della pandemia; se si chiedono investimenti per la cultura è per aprire, gestire e valorizzare beni che appartengono a tutta la comunità e di cui ne costituiscono il DNA (siano essi edifici storici, biblioteche, archivi e musei); se si richiedono fondi per la messa in sicurezza di terreni ed edifici a rischio dissesto idrogeologico è per intervenire, dove in alcuni casi in passato sono stati compiuti errori, nel tentativo di salvare questi paesaggi, con relative strutture e talvolta abitazioni; se si chiedono incentivi per le scuole, per implementare servizi e attività, è per alimentare futuri cittadini a cui, si spera, non ci sarà bisogno di spiegare la necessità di quanto detto sopra. E potrei andare avanti ancora nel lungo elenco delle urgenze di questi nostri paesi.
In virtù di questo comprendiamo l’esigenza di una strategia plurisettoriale, economicamente vantaggiosa e appetibile, in cui tutti possiamo essere coinvolti, a seconda del segmento economico interessato, affinchè questi nostri territori possano continuare ad essere abitabili, vivi e vivibili.
[1] Per approfondire l’argomento, invito alla lettura di “Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi”, a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, Collana Saggine 2022.