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A cura di Riccardo Tizzi

DISCLAIMER: non è mia intenzione approfittare di questo spazio per fare proselitismo o propaganda. Semplicemente mi è stato chiesto di fare un’analisi sugli ultimi sviluppi del Movimento 5 Stelle e da iscritto, presente all’Assemblea Costituente del mese scorso provo a farla.

 

Sabato 23 e domenica 24 novembre gli iscritti (certificati e attivi) al Movimento 5 Stelle sono stati convocati a Roma, presso il Palazzo dei Congressi, per l’Assemblea Costituente, accompagnata da una consultazione on-line su vari quesiti. Dopo la pubblicazione dei risultati, il co-Fondatore e ormai ex Garante ha chiesto la ripetizione del voto sullo Statuto, svoltasi fra il 5 e l’8 dicembre con gli stessi risultati.

Con tale processo questa forza politica, ormai presenza stabile e consolidata dello scenario italiano, almeno a livello nazionale e per quanto ne sia stata annunciata la morte almeno una decina di volte (non ultimo da Grillo stesso), ha intrapreso una direzione politica nuova, seppure in sostanziale continuità con il passato.

 

Da testimone diretto, posso dire di aver constatato per la prima volta la comica discrepanza fra le rappresentazioni mediatico/giornalistiche e la realtà vissuta e percepita in sala. Innanzitutto la narrazione è stata appiattita sullo scontro Conte-Grillo, che francamente in sala non interessava nessuno. La polemica sul ruolo del garante, che in realtà andava da mesi in direzione contraria allontanandosi volontariamente dalla nostra comunità, è stata totalmente fine a se stessa.

Anche la famosa “contestazione”, a tre metri da me, è stata veramente risibile e senza alcun appoggio in sala (molto pochi nel mondo reale). Anche piuttosto triste per l’ispiratore e per i ragazzi che protestavano, ma preferisco non infierire.

Ad ogni modo, era stata organizzata una serie di panel sui temi fondanti del Movimento (ma anche su altri temi correlati), con interventi e interviste di ospiti qualificati, anche premi Nobel e politici esteri di spessore. Capisco il desiderio generale di ridurre il Movimento a un’orda di sprovveduti con i forconi, ma il suo aspetto più rilevante, a mio avviso, è da sempre la ricerca e l’approfondimento, anche se temo che molti non l’avessero capito, dentro e fuori. Gli incontri sono stati quasi tutti stimolanti e di alto livello, ma soprattutto fonti di ispirazione per capire la realtà e trovare strumenti migliori per affrontarla.

 

Sarebbe inutile qui ripercorrere nel dettaglio la storia della nascita e della progressiva affermazione del Movimento, sicuramente può ricostruirla meglio chi l’ha vissuta e osservata più da vicino. Personalmente, pur essendo da sempre un elettore e un simpatizzante, ho cominciato a partecipare più attivamente solo dopo le elezioni politiche del 2022 (iscrizione a marzo 2023, per i miei 40 anni). Quindi opererò delle semplificazioni.

Bisogna dire che il Movimento delle origini, pur ispirandosi a valori   innegabilmente “progressisti” (ricordiamo brevemente quali sono le famigerate “5 stelle”: beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione tecnologica ed economia eco-sociale di mercato), si è caratterizzato sostanzialmente per i toni a volte eccessivi e per il desiderio di forte discontinuità con il passato, oltre che per il richiamo alla “questione morale” che troppo spesso viene semplicisticamente spacciata per “giustizialismo”. I toni forti, il desiderio di cambiamento e la lotta al consociativismo “di casta” erano sacrosanti, in quel momento, ma la sua presentazione come movimento “post-ideologico”, se da una parte gli ha permesso di raccogliere immediatamente larghissimi consensi, dall’altra lo ha condannato ad accogliere al suo interno, come attivisti e come sostenitori, “materiale umano” fin troppo eterogeneo, accomunato solo dal desiderio di fare piazza pulita della vecchia politica.

Questa eterogeneità di fondo, unita all’assoluta inesperienza politica (anzi alla rivendicazione orgogliosa, più che legittima, del proprio carattere di “outsider”), ha avuto due conseguenze principali, che se non ci fosse stato il boom di consensi del 2018 e la conseguente necessità di assumere responsabilità di governo non sarebbero forse neanche venute alla luce.

La prima è che l’inesperienza e l’impreparazione hanno portato idee ottime, a volte anche geniali (parlo ad esempio del reddito di cittadinanza e della cessione del credito di imposta) ad essere tradotte in leggi spesso mal scritte e dall’applicazione problematica (purtroppo ciò che funziona perfettamente nel mondo delle idee non può farlo altrettanto nella eterogenea, a volte anche un po’ cialtronesca, realtà italiana). Risultato: le idee più innovative e rivoluzionarie sono percepite, a torto o a ragione, con ostilità, se non addirittura con astio da molti italiani.

L’altra conseguenza è che il “materiale politico” eterogeneo di cui sopra era destinato a dividersi con i primi incarichi di governo.

Perciò, al netto degli errori (e di errori ne sono stati fatti parecchi, inutile negarlo, l’autocritica è il punto di partenza per qualsiasi miglioramento), e nonostante il Movimento sia rimasto di fatto fedele ai valori delle origini (non in termini assoluti ovviamente, l’assoluto non esiste nelle questioni umane), varie categorie di militanti hanno percepito in vari momenti un “tradimento” di questi valori. Andiamo ad analizzare alcuni di questi momenti.

All’indomani delle elezioni parlamentari del 2018 alcuni sostennero, e continuano a sostenere, che il Movimento non avrebbe dovuto stringere alleanze con nessuno, in modo tale da tornare a votare a stretto giro. I partiti sarebbero implosi e si sarebbe potuto formare un governo monocolore completando la “rivoluzione” e non “corrompendosi” con le altre forze politiche.

Quest’idea ha due enormi punti deboli: per prima cosa, pecca di ottimismo, non c’è nessun motivo plausibile per ritenere credibilmente che rivotando le cose sarebbero andate diversamente. Anzi, probabilmente quello ottenuto in quel momento è stato il miglior risultato ottenibile da una forza politica come il M5S, che da sempre si è messa contro ampie porzioni di società. Ma anche ammesso che ciò fosse stato possibile, formando un governo totalmente pentastellato le contraddizioni sarebbero esplose in pochi minuti, e in modo molto più violento rispetto alle piccole/grandi turbolenze che abbiamo visto in questi anni. D’accordo che stiamo parlando di un Movimento post-ideologico (non a-ideologico), ma se penso ai militanti ed elettori  conosciuti in quella prima fase mi viene da ridere al solo pensiero di immaginarli ad amministrare insieme. Finché si tratta di opporsi a un nemico comune le convergenze si trovano agevolmente. Ma governare (o amministrare) non è come fare opposizione o prendere un aperitivo (lo faccio spesso e con piacere con elettori di tutte le forze politiche, perfino renziani o nostalgici del fascismo – sic).

 

In secondo luogo, all’interno del Movimento c’erano alcuni che non si sarebbero mai alleati con la Lega di Salvini, altri con il PD. Gli uni e gli altri si sono allontanati, in momenti diversi, e anche questo era inevitabile, visto che non si poteva far altro che governare alleandosi con altri, con un contratto che stabilisse chiaramente alcuni punti fermi inderogabili e irrinunciabili. L’unica alternativa era restare a vita all’opposizione, un po’ vile direi.

 

Un altro momento divisivo è legato al vero grande errore, gigantesco a mio avviso, quello di entrare nella “grande coalizione” del Governo Draghi. E parlo di errore sia a livello di scelta politica che a livello strategico. L’unica motivazione plausibile era salvaguardare le misure prese dai 5 Stelle negli anni di governo. Ma non è servito a molto, alla lunga sono state smantellate lo stesso, anzi è aumentato progressivamente il discredito sul Movimento (facile ostacolare o far funzionare male qualcosa che è stato deciso dal governo precedente e sostenuto da una forza che per di più  continua stupidamente a sostenere il governo attuale). L’unica cosa razionale da fare in quel momento era rimanere all’opposizione del Governo Draghi. Da questo punto di vista è stata esemplare la condotta di Fratelli d’Italia. E a poco vale accusarli di incoerenza perché ora sono al governo con chi era nel Governo Draghi, perché tanto non lo ricorda più nessuno. Il principale responsabile dell’appoggio al governo Draghi ha un nome e un cognome, e risulta paradossale che ora proprio lui si opponga a prescindere a qualsiasi alleanza.

 

Ma venendo brevemente alle decisioni prese in Assemblea, oltre alla sacrosanta eliminazione della figura del Garante e alle questioni più tecniche sui temi (più quella per me insignificante sul simbolo), direi che le questioni dirimenti fossero due: la regola dei due mandati e la definizione di “progressisti indipendenti”.

La regola dei due mandati nasceva agli albori come un antidoto alla sclerotizzazione imposta dai “dinosauri” della politica. Era una regola più che condivisibile  in quel momento, e che comunque ha gettato semi di rinnovamento nel panorama politico generale. Solo che con il passare degli anni ha mostrato delle criticità. Prima fra tutte si è pagato il costo dell’inesperienza: viviamo in un mondo sempre più complesso e, se non si vogliono proporre le solite soluzioni semplicistiche che poi si dimostrano inadeguate alla prova dei fatti c’è bisogno di esperienza e competenza. Non ci si improvvisa amministratori, consiglieri, parlamentari. E spesso quando si comincia a capire qualcosa della macchina del “potere”, potendo finalmente modificarne i delicati meccanismi, sono passati 10 anni e si deve sparire. E questo è ancora più vero per i mandati di opposizione. Ma c’è anche un problema di reclutamento e formazione dei candidati. Il Movimento si è dotato di una scuola, ma per vederne gli effetti ci vorrà del tempo, e comunque per quanto una scuola possa preparare, non potrà mai sostituire, come per qualsiasi mestiere, l’esperienza sul campo. E la quantità di candidati credibili che la scuola potrebbe sfornare non sarà mai sufficiente a coprire tutte le necessità. C’è inoltre una questione di riconoscibilità. Presentare dei perfetti sconosciuti poteva andar bene nel 2013, ma l’impatto dirompente avuto allora non può bastare per essere credibili oggi. Oggi c’è bisogno di competenza, oltre che di onestà.

 

Per quanto riguarda il “progressismo indipendente”, posso dire, come accennato sopra, che da una parte il progressismo era nel nostro DNA fin dall’inizio. Certo, potremmo disquisire per ore sul significato da dare al termine (così come si potrebbe disquisire su quello opposto, “conservatore”). Dal mio punto di vista però, essere progressisti non vuol dire essere entusiasti a prescindere del mondo che il progresso ha creato e creerà. A me interessa che una società funzioni e favorisca la qualità della vita dei cittadini, e di modi per raggiungere questo obiettivo ce ne possono essere diversi, anche a seconda dei momenti. Il resto sono questioni ideologiche del tutto estranee al Movimento (che non rifiuta l’ideologia, sarebbe un altro dogmatismo, ma ne dà una visione critica e pragmatica, continuamente oggetto di negoziazione). La definizione “progressisti” fa solo riferimento alla necessità di arrivare (o tornare, decidete voi) a una società più giusta ed equilibrata, vuol dire preoccuparsi per la giustizia sociale e per i beni comuni, vuol dire prediligere lo spirito di collaborazione rispetto al pur necessario principio di competizione. Non vuol dire appiattirsi sulle posizioni del Partito Democratico o su quelle di altri Socialismi europei. Ed è per questo che è fondamentale definirsi “indipendenti”, cioè non essere schiavi dell’ideologia o delle consuetudini. Ciò significa cercare soluzioni studiando il mondo senza preconcetti, risolvere problemi attraverso la conoscenza e la libertà di pensiero e d’azione. Significa, se necessario, saper dire a chi è con noi che sbaglia e a chi è contro di noi che ha ragione. In una parola, significa onestà intellettuale.

 

Il cammino da fare è tanto, il radicamento sui territori è tutto da costruire, i Gruppi Territoriali sono una buona idea e ottimi spazi di potenziale aggregazione ancora da sfruttare. Ma ora dobbiamo solo lavorare. Il primo passo è discutere, incontrarsi, conoscersi. Nel mondo fisico, non più solo in quello digitale.

Redazione

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Il Sadadì è un’esperienza che nasce per far luce sulle ombre che avvolgono le aree marginali di questa Italia piena di sgomento e di racconti a metà. Per aprire finestre sul legame tra le vicende dei grandi palazzi e le loro ripercussioni sulla galassia di piccoli paesi che li circonda. Il blog è aperto e le nostre bio sono in calce, perché chi ha il coraggio di dire, deve avere anche il coraggio di mettere la faccia di fianco alle proprie idee. Tutto è pronto, che il racconto abbia inizio.

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