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Molte aziende nel corso degli anni hanno rinnovato la loro immagine tingendosi di verde. A volte questo cambiamento è coadiuvato da una programmata e strategica opera di marketing, altre volte si tratta solo di apparenza e di un’illusione ai danni del consumatore.

Di recente è tornato alla ribalta il tema, spesso poco approfondito, del greenwashing. Di cosa si tratta? Il termine, nato negli Stati Uniti nel 1986 dalla mente dell’ambientalista Jay Westerveld, viene tradotto come ecologismo o ambientalismo di facciata. Consiste in una strategia comunicativa adottata da imprese, istituzioni o organizzazioni che mira a costruire una errata immagine positiva di sé in riferimento all’impatto ambientale che essa ha sul Mondo con un intento fuorviante nei confronti dell’opinione pubblica e dei consumatori. Per fare un esempio: qualche anno fa la nota catena di fast-food McDonald’s ha modificato i colori dello storico marchio ponendo l’iconica M gialla su uno sfondo verde e non più rosso come era in precedenza, accostando quindi il marchio a un’idea di sostenibilità e di una filiera produttiva che tenesse conto del suo impatto sull’ambiente.

La società americana di marketing ambientale TerraChoice Environmental Marketing Inc., ha stilato una lista di “peccati” che commette chi è tacciato di greenwashing:

Nascondere la verità: la comunicazione predilige un aspetto, considerato green, omettendo tutti gli altri;

Non dimostrare: rilasciare dichiarazioni in merito a caratteristiche senza che queste siano comprovate da studi, documentazione o dall’attestazione data da terze parti;

Vaghezza: affermazioni poco chiare e quindi facilmente fraintendibili o fuorvianti;

False etichette: quando parole o immagini inducono l’idea che l’affermazione o il pensiero indotto è comprovato da terze parti;

Irrilevanti: marcare con insistenza caratteristiche green che in realtà sono marginali, minoritarie e talvolta del tutto inesistenti;

Scegliere il minore tra i due mali: vantare una caratteristica di un prodotto che però non risolve il suo impatto ambientale (ad esempio la benzina verde);

Mentire: utilizzare affermazioni false.

Molte aziende sono finite, nel corso degli anni, nel turbinio legale di accuse di greenwashing. L’esempio più eclatante è la recente accusa (del 2020) mossa ai danni di ENI in merito alla pubblicità, considerata ingannevole, di ENIdiesel+: il colosso dell’energia è stato sanzionato dal Tar del Lazio a pagare 5 milioni di euro per aver dichiarato, nella pubblicità del carburante in questione, che le emissioni sarebbero state ridotte del 40% senza che l’affermazione fosse comprovata (per approfondire l’argomento clicca qui). ENI non è nuova però a questo tipo di critiche. Nel 2014 è stata accusata di dichiarazioni mendaci in merito alle stime a rialzo sul tasso di deforestazione annuo della valle zambiana del fiume Luangwa (2,5% quello stimato contro lo 0,42% di quello reale), così come per la stima di anidride carbonica assorbita. Il tutto in seno al progetto Luangwa Country Forests promosso da BioCarbon Partners per ridurre il tasso di deforestazione, tra i più alti del Paese, diffondere pratiche agricole più sostenibili e fornire alle aziende partecipanti credito di carbonio (l’inchiesta di Greenpece qui).

Come anticipavo, tante sono le grandi aziende accusate di greenwashing. Tra queste si annovera IKEA che, pur proponendo un’immagine di sostenibilità a 360°, nel 2020 è stata accusata dal gruppo ambientalista britannico Earthsight di essersi rifornita di legname abbattuto in modo illegale in Russia e in Ucraina e dal tribunale di Versailles in Francia che ha condannato alcuni dirigenti per aver utilizzato vari mezzi tecnologici per spiare i dipendenti, violando così l’obiettivo numero 8, intitolato “Lavoro dignitoso”, dell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile.

La Coca-Cola, al centro di controversie legate alla sostenibilità già dai primi anni 2000, è stata accusata di pubblicità ingannevole, così come è capitato al colosso del fast-fashion H&M in relazione alla sua linea di abbigliamento denominata “Conscious”.

Nestlè, nel 2019, è stata accusata di dichiarazioni false quando asseriva che il cioccolato proveniva da fonti sostenibili quando in realtà nella filiera aziendale del cacao non era in vigore nessuno standard ambientale.

Nel 2018 è stata mossa una azione collettiva contro BMW per l’utilizzo di software che falsificavano le emissioni dei motori diesel così da promuovere i veicoli come ecologici e rispettosi dell’ambiente.

Un caso italiano è quello dell’acqua San Benedetto, condannata a pagare una multa di 70 mila euro “per pratiche commerciali scorrette” in occasione di una campagna atta a promuovere una bottiglia che prometteva la riduzione dell’uso della plastica di almeno il 30% senza esser però mai riuscita a comprovare tale obiettivo. E potrei continuare ancora e ancora questo lungo elenco di “peccatori”.

Infondo l’allusione, il creare idee, proporre aspettative e plasmare un’illusione è alla base del marketing. Infatti recentemente il greenwashing si sta considerando come la nuova frontiera del green marketing, anche se in realtà se ne discosta per i principi all’origine e nel piano di attuazione. Per green marketing si intende la commercializzazione di prodotti che si ritiene siano ecologicamente preferibili ad altri perchè la loro realizzazione rientra in un sistema di attività: il cambiamento del prodotto o del processo di produzione, l’utilizzo di imballaggi eco-sostenibili, la modifica della pubblicità, ecc.

Se il greenwashing riproduce quindi l’apparenza, spesso falsata e ingannevole, il green marketing rappresenta invece la sostanza, frutto di un reale lavoro di modifica, dei processi e del prodotto, per ottenere risultati compatibili dal punto di vista ambientale.

Negli anni quindi la sensibilità nei confronti dell’ambiente è certamente aumentata se si pensa, proprio grazie allo sviluppo del green marketing, a quante aziende hanno abbassato il loro impatto ambientale puntando su energie rinnovabili nel loro processo produttivo o sul riciclo. Uno degli intenti principali è sicuramente quello di diminuire l’utilizzo di plastica puntando piuttosto al riciclo e al riutilizzo della stessa. L’altro grande aspetto è quello delle energie rinnovabili (direttiva europea 2009/28/CE). Finora, nonostante se ne parli da qualche decennio, hanno sempre ricoperto un ruolo minoritario, se non addirittura marginale, nel piano energetico dominato dall’utilizzo di combustibili fossili. Se da un lato le politiche nazionali ed europee puntano ad un aumento considerevole nei prossimi anni nell’utilizzo di energie rinnovabili, con non poche difficoltà di realizzazione all’atto pratico, nazioni come l’Islanda e la Norvegia generano da fonti rinnovabili il 100% dell’energia elettrica di cui necessitano e altri Paesi stanno attuando politiche per raggiungere questo obiettivo e tagliare definitivamente il cordone ombelicale che li lega al petrolio e ai suoi derivati. Questo è possibile solo con una programmazione condivisa, finanziata e a lungo termine, ça va sans dire. E l’Italia? Più di un terzo dell’energia elettrica prodotta arriva da fonti green: l’idroelettrico domina da sempre, seguono il solare fotovoltaico, le bioenergie, l’eolico e il geotermico. Nel complesso, l’Italia è il terzo produttore di rinnovabili in Europa con una quota in percentuale in costante crescita anno dopo anno. Degli oltre 320 terawattora del fabbisogno energetico elettrico italiano ogni anno, più di un terzo arriva oggi da fonti rinnovabili. L’ultimo Rapporto sull’Efficienza Energetica dell’ENEA parla in particolare di 110 terawattora, equivalenti a circa una decina di milioni di tonnellate di petrolio. Se nel computo dell’energia inseriamo anche la componente non elettrica, allora la quota green rappresenta il 19% del totale (invito alla lettura delle statistiche GSE qui). Ma tutto questo non basta se si pensa che gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 consistono nella riduzione del 55% delle emissioni di CO2 e l’aumento del 70% di produzione di energia da fonti rinnovabili. Già da ora il costo delle rinnovabili è più vantaggioso delle altre fonti di produzione di energia elettrica: 45-50 euro a megawattora con il solare, 50-60 con l’eolico, contro il picco dei 140-145 del gas. La realtà dei fatti però è che il costo del metano che importiamo soprattutto, da Russia e Stati Uniti, ci ha costretti a mettere due miliardi in manovra per ridurre le spese a famiglie e imprese. Perché quindi se conviene economicamente non puntiamo sulle energie rinnovabili? A bloccare l’iter di sviluppo ci pensa, come solito in Italia, la burocrazia: 6-7 anni in media per ottenere le autorizzazioni, possibili blocchi da parte delle Regioni odi altri enti e il divieto di stoccaggio dell’energia in eccesso. Queste variabili vanno a rallentare il già macchinoso iter di approvazione e autorizzazione alla costruzione di un impianto che consta di 11 passaggi (interessante approfondimento in materia qui). Per questo motivo in Italia è sempre più difficile tagliare quel cordone ombelicale che ci lega ai combustibili fossili. Nei primi nove mesi del 2019 l’Italia ha importato dal Medio Oriente il 44,2% del petrolio greggio, seguito dall’Africa con il 28,2%, dai paesi europei non UE con il 16,0% e dall’Asia centro-occidentale con il 7,8%. Il sistema nazionale del gas è alimentato prevalentemente con gas prodotto in Paesi stranieri importato per mezzo di gasdotti internazionali o trasportato via mare in forma liquefatta come GNL e immesso tramite terminali di rigassificazione. Secondo i dati elaborati dall’Unione Petrolifera, nel periodo gennaio-aprile 2020, il nostro Paese ha importato un totale di 17,196 milioni di tonnellate di petrolio greggio, il 12,6% in meno rispetto al primo quadrimestre dell’anno precedente. Nonostante questo la dipendenza è ancora molto alta e la strada da percorrere ancora molto lunga se la situazione resta invariata. Inutile insediare a Palazzo Chigi il nuovo Ministero per la Transizione Ecologica se non c’è una cooperazione da più parti che porti allo snellimento dell’iter burocratico, a un programma di finanziamenti a lungo termine (e qui sembra intervenire il PNRR) e una pianificazione di progetti da realizzare con obiettivi da raggiungere che siano concretamente perseguiti. Intanto, in mancanza di tutto ciò, continuiamo a subire le fluttuazioni dei mercati, l’instabilità politica internazionale (non ultima l’atroce guerra che la Russia, da cui ci riforniamo, sta combattendo contro l’Ucraina) nella speranza che i “rubinetti” restino aperti. “E io pago!” diceva Totò. Il carburante ha raggiunto prezzi esorbitanti e non accenna a diminuire, anzi, le bollette sono aumentate nel 2022 del 131% per la luce e del 95% per il gas (leggi qui) considerato che il prezzo del petrolio ora è di 118 dollari al barile (fonte Il Sole 24 Ore) contro i 65 dollari del marzo 2021, e continuerà ad aumentare. Il “caro energia” e il perseguimento di politiche non lungimiranti lo subiamo sulla nostra pelle, anzi nei nostri portafogli. Vista anche la situazione Russia-Ucraina si paventa l’ipotesi di intervenire riattivando in Italia 7 centrali a carbone (qui); so già cosa starete pensando e no, in questo elenco non è annoverata quella del nostro Comune il cui destino sembra essere segnato ancora da un grande punto interrogativo.

Gli argomenti qui brevemente trattati meritano ognuno un approfondimento. Quello che è chiaro ed evidente è che non è più il tempo di tergiversare: ora è il momento di pianificare e agire per renderci finalmente autonomi dal punto di vista energetico e far risparmiare al nostro Paese, e di conseguenza a noi cittadini, milioni e milioni di euro senza dipendere da chi vaneggia un nazionalismo esaltato o ha mire assolutistiche. Ora non è più ne avanguardia ne un ipotetico piano B: è una necessità impellente. Se la politica non agisce in quest’ottica a poco valgono azioni di oculata e giusta protesta come abbassare il termostato di 1 o 2 gradi: rimarranno sempre e solo delle gocce in un oceano.

Sara Trionetti

Sara Trionetti

L’arte e la letteratura mi appassionano da sempre, perciò intraprendo studi classici. L’attaccamento all’Umbria si esprime in ambito accademico con tesi specialistiche legate al territorio, poi in ambito lavorativo, prestando servizio in molti musei della Regione, e infine come guida escursionistica e accompagnatore turistico. Con passione accompagno italiani e stranieri alla scoperta della storia, delle tradizioni, del buon cibo e della natura della mia amata Umbria. I tramonti mi commuovono, il panorama dalle vette delle montagne anche. Le mie giornate sono piene di ore di studio, escursioni con Foresta e sport. Sono cresciuta nel volontariato, attività che ho svolto con impegno e dedizione. Sono una di quelle persone che ha scelto di rimanere perché crede nelle potenzialità di questo territorio.

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