Più di 3 miliardi di Euro, è questo l’importo complessivo dei progetti inseriti dalla Regione Umbria nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza 2021-2026. Una cifra da capogiro che, fra Missioni e Linee d’intervento, si articola in 45 proposte strategiche per rilanciare il territorio regionale all’insegna dell’innovazione tecnologica e dell’ecologia (di gran lunga le due macroaree per cui si prevede il maggior numero dei finanziamenti). Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica, recita il proverbio e a ben vedere, non è difficile notare come questo che appare come un grande sforzo di progettazione, rischi di perdersi in una nuvola di fumo. Il collocamento della Cabina di Regia presso la Presidenza del Consiglio infatti, dà una chiara impronta centralizzante tanto all’indirizzo quanto alla governance dell’intero Piano, e in uno scenario che vede il cuore del processo decisionale tanto lontano dai nostri territori, il rischio che l’elenco di 45 missioni proposto dalla regione Umbria finisca per apparire più come una lista della spesa, che come il frutto di un’attenta analisi delle reali esigenze del territorio c’è ed è piuttosto alto. È chiaro a tutti ormai che la torta del PNRR è un piatto troppo ricco per non poter partecipare alla sua spartizione, per molte regioni costituisce la principale, se non l’unica, opportunità concreta di sviluppo per i prossimi 5 anni. Perciò, viene da chiedersi se, data l’evidente disparità fra le forze in gioco (il peso economico delle regioni del nord e i vincoli di spesa per il sud), non sarebbe stato meglio puntare su un piano di minor impatto mediatico ma più mirato per provare a convincere Roma dell’importanza di quanto chiesto.
La bella notizia però, come prontamente sottolineato dal sindaco Valentini durante il consiglio comunale dello scorso 30 settembre,all’interno di questa lunga lista figurano ben 2 progetti che coinvolgono Gualdo Cattaneo. Anche se entrambi, ovviamente, ruotano intorno al recupero dell’area occupata dall’ex-centrale Enel di Bastardo e perciò si escludono a vicenda. Il tanto decantato PRIMA (Polo Regionale dell’Idrogeno e della Mobilità Alternativa), e lo Smart Farming. Proprio quest’ultimo sarà l’oggetto di questa prima analisi che andiamo a proporre sul tema PNRR, alla quale farà seguito quella, ben più articolata per storia e implicazioni, sul tema dell’idrogeno.
Smart Farming è un progetto da 82 milioni di Euro di spesa complessiva di cui 30 da finanziare tramite il PNRR, mentre la restante parte sarà coperta da finanziamenti privati. Viene immediatamente da chiedersi quali siano questi “privati”, ma dalla lettura del documento pubblicato dalla Regione, non è dato saperlo. Mettendo tra parentesi questa prima difficoltà, speriamo più formale che sostanziale, l’idea si rivela relativamente semplice e d’impatto. Dobbiamo recuperare i 18 ettari dell’ex sito industriale suddividendolo in 3 aree di cui una (13 ettari) destinata alla realizzazione di una serra per la produzioni di ortaggi in idroponica, la seconda ospiterà un parco fotovoltaico (2,4 ettari) da 0,9 MW e la terza un sistema di accumulo energetico (1,1 ettari) da 25 MW gestito direttamente da Enel.
La portata green del progetto viene individuata nella possibilità che offre di ridurre il consumo di “acqua, suolo ed emissioni climalteranti”, nel “mancato utilizzo di una risorsa scarsa come il terreno fertile”, nel “mancato utilizzo di pesticidi” e “in un processo di valorizzazione e riscoperta della biodiversità del territorio”. Il tutto, offrendo lavoro a 180 dipendenti fra componente industriale (confezionatori, tecnici per programmazione, addetti agli impianti,..) e componente agricola (carrellisti, raccoglitori,…) che data la natura delle mansioni da ricoprire potrebbero facilmente essere individuati all’interno del territorio comunale. A chiudere il cerchio, c’è l’ampio spazio che il polo produttivo vorrebbe dedicare alla formazione, con la creazione del GIC Lab (Laboratorio Gioca-Impara-Cresci) per i più piccoli e il Farming FabLab che in collaborazione con l’ITS Agritech e l’Università di agraria, punta alla realizzazione di polo di ricerca sull’idroponica e le innovazioni 4.0.
Un progetto perfetto per esemplificare il rischio di cui si parlava sopra, e per una lunga serie di motivi. Il primo si evince sin dalle primissime righe, dall’intento di ridurre il consumo del suolo. Va subito precisato che c’è un’enorme differenza tra “utilizzo” e “consumo”, quando si parla del suolo. Sono la copertura artificiale e l’impermeabilizzazione a determinare il consumo del suolo, cioè ad alterarne la sua dimensione naturale, attività in cui, tra l’altro, in Italia siamo diventati fenomenali, nel 2019 abbiamo viaggiato a 2 m2 al secondo. Una cosa ben diversa dall’utilizzo del suolo proprio delle attività agricole, ossia dalla sua coltivazione a fini produttivi. Non sono le serre su ex-siti industriali a contrastare il consumo di suolo, o meglio, non lo sono se si intende l’agricoltura per come essa è: la coltivazione di un appezzamento di terreno. Può diventarlo se la trasformeremo nella coltivazione di ortaggi in acque mineralizzate, cioè fuori terra. Perché è questo, per chi non lo sapesse, l’idroponica: una coltivazione fuori terra di piante e ortaggi, le cui radici sono tenute perennemente a bagno in acque mineralizzate in laboratorio, in base alle esigenze di ogni singola varietà, al fine di garantire un ambiente in condizioni ottimali tutto l’anno, al riparo da ciò che rende una pianta tale probabilmente, l’essere parte di un ecosistema. Per molti è il futuro, per altri è quanto di più distante ci sia dalla naturalità del cibo. Quello che è certo, è che è molto difficile immaginare che qualcuno possa credere che nel clima artificiale creato ad hoc sotto un telo di plastica, 13 ettari di monocolture (ad oggi sono molto poche le varietà che garantiscono rese buone in idroponica) possano innescare “un processo di valorizzazione e riscoperta della biodiversità del territorio”.
Anche sul fronte pesticidi le imprecisioni non mancano, l’assenza di suolo e l’ambiente protetto limitano senz’altro la presenza di alcuni agenti patogeni, ma di certo non quella di funghi e batteri, che nel microclima umido trovano un habitat perfetto per proliferare e potrebbero facilmente rendere necessari trattamenti fitosanitari specifici per salvare i raccolti.
Oltrepassando le incongruenze agronomiche, anche sul fronte lavorativo si notano delle criticità, perché la gestione di un impianto del genere verrebbe a rendere necessario un fatturato di diversi milioni di euro (basti pensare al semplice monte stipendi da sostenere) sin dalle primissime fasi, cosa che, per chi abbia dimestichezza con l’attività imprenditoriale, è tutt’altro che facile. Soprattutto perché la mole di cibo prodotta (si stima ad esempio, che il pomodoro in idroponica abbia rese medie che oscillano tra i 18 kg/m2 del ciliegino e i 50 kg/m2 del pomodoro a grappolo) rende indispensabile ottenere contratti di fornitura con la GDO che difficilmente permettono di spuntare prezzi particolarmente vantaggiosi. In particolare per sistemi produttivi che ad oggi hanno ancora dei costi di produzione abbastanza alti. Per l’insalata siamo intorno a 1 €/kg.
Prendendo per buona la disponibilità di Enel a gestire i due impianti energetici annessi inoltre, il silenzio sull’eventuale co-finanziatore del progetto indebolisce sicuramente la forza della proposta. Come la indebolisce non sapere se, l’eventuale gestore della smart farm ne sarebbe anche il proprietario, o se la titolarità rimarrà in capo a Enel.
Ma andando al di là delle questioni puramente progettuali, è un’altra la questione che s’impone: è questo ciò di cui Gualdo ha bisogno? Nel progetto si dichiara che l’impianto è lontano da terreni agricoli. Nulla di più lontano dalla verità, l’impianto è circondato su tutti i lati da terreni agricoli, è immerso in un contesto che vede nell’agricoltura tradizionale non solo la propria vocazione, ma anche un volano dell’economia. La paura è che il desiderio di poter dire che si sta facendo qualcosa per Gualdo Cattaneo, possa andare oltre al punto cruciale della questione: il che cosa. La logica a ribasso del qualsiasi cosa è meglio di niente perciò bisogna accontentarsi, non può in alcun modo essere il punto di partenza per un percorso di crescita perché semplicemente non segue nessun percorso. E costruire una Silicon Valley dell’agricoltura nel cuore della DOP Colli Martani, sebbene possa portare i suoi vantaggi in termini occupazionali (ammesso che si riesca a trovare la sostenibilità economica), di certo non risponde in alcun modo alle esigenze di tutte quelle attività che della cura del territorio hanno fatto la propria missione imprenditoriale, ma non solo. Alla Cabina di Regia l’ardua sentenza, ma la nebbia sul futuro dell’ex-centrale di Bastardo, è ancora fitta.