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Nel 2019 Enrico Valentini, allora candidato Sindaco della destra, in campagna elettorale ha accennato anche alla questione del reddito: i dati che attestavano Gualdo Cattaneo nei bassifondi della classifica dei comuni dell’Umbria erano per lui una delle tante prove del malgoverno Pensi e della sinistra. Il problema del reddito e quindi dei salari era sicuramente vero, ma come altre questioni i dati e il loro utilizzo era utile alla costruzione della narrazione del cambiamento, e le tematiche venivano affrontate in maniera approssimativa e provinciale senza inserirle in un contesto più ampio, semplicemente per l’interesse particolare delle elezioni comunali e per alimentare il malcontento che spesso chi governa subisce. Una volta diventato Sindaco, per il signor Valentini la questione reddito è subito sparita da ogni dibattito e le classifiche in linea con il passato sono cadute nel dimenticatoio.

Proprio in quell’anno usciva per Editori Laterza BASTA SALARI DA FAME (15 euro) lettura che propongo per le vacanze estive.

Marta Fana, giovane e brillante ricercatrice presso l‘Institut D’Études Politiques di SciencesPo a Parigi insieme a Simone Fana laureato in Scienze politiche all’Università di Perugia, membro della redazione di “Jacobin Italia” che ha scritto su tematiche legate al mercato del lavoro su “Left”, “Internazionale” e sbilanciamoci.infoci raccontano quale siano le condizioni salariali nel nostro Paese.

Dati, analisi e una precisa ricostruzione storica spiegano in maniera chiara al lettore una verità spesso nascosta dai media mainstream, e cioè come e quanto le condizioni di lavoro negli ultimi trent’anni sono peggiorate a causa di precise scelte politiche. Sposando appieno le tesi del neo liberismo e cancellando le conquiste frutto delle lotte e delle rivendicazioni del dopo guerra, illudendo giovani e meno giovani che in nome della produttività e della flessibilità saremmo stati tutti più ricchi e felici, incanalando spesso la rabbia verso i più deboli come gli immigrati, la politica ha assecondato le “richieste” del capitale sempre famelico di profitti e rendite, determinando la situazione attuale fatta di stipendi bassi, precarietà  e meno diritti.

Le dinamiche salariali si sono intrecciate con i cambiamenti della società e dei rapporti di forza tra le classi sociali.

Nella fase della ricostruzione post bellica del nostro paese il conflitto sociale va di pari passo con lo sviluppo. Alla moderazione salariale promossa dalla DC attraverso “l’azione congiunta che vede protagonisti la borghesia del Nord e il blocco agrario del Sud” si contrappone il Piano del Lavoro della CGIL di Di Vittorio e l’idea del Pci di unificare classe operaia e ceti medi nella lotta di classe.

Negli anni ‘50-‘60 Ad un mondo del lavoro sempre più frantumato a causa di esternalizzazioni delle fasi di lavorazioni, gestione unilaterali degli appalti, lavoro a domicilio sino alla costituzione di false cooperative di manodopera (la situazione è molto diversa da oggi?) si contrappongono cicli continui di proteste che portano a grandi conquiste e vittorie: il divieto di interposizione e di intermediazione di manodopera, il continuo incremento dei salari reali fino ad arrivare  alla scala mobile per la rivalutazione automatica del salario in base all’inflazione, le quaranta ore di lavoro, lo Statuto dei Lavoratori e il servizio Sanitario Nazionale.

L’età della sconfitta viene temporalmente inquadrata nel decennio 1973-1984: il terrorismo, la strategia della tensione, la crisi finanziaria portano ad una sorta di “unità nazionale”; PCI e Sindacato  rinunciano al “sogno socialista” e accettano per la prima volta l’idea che la scarsa competitività dell’economia italiana sia colpa dell’elevato costo del lavoro. 

La stagnazione dei salari attuali ha simbolicamente inizio la notte di S. Valentino del 1984 quando Bettino Craxi cancella la scala mobile. Gli anni ottanta oltre ad essere il simbolo della sconfitta del movimento operaio italiano segnano un cambio culturale nella politica del nostro paese: un sentimento di leggerezza aleggia nelle televisioni pubbliche e private, l’Italia modaiola e mondana ha sostituito quella conflittuale e ribelle dei decenni precedenti.

Il “Futuro passato è quello dal 1993 ad oggi”, un lento e continuo arretramento che va di pari passo con il diminuire del protagonismo e dell’incisività di quella che viene definita classe dei lavoratori, perché quelle parole per gli autori non sono un retaggio novecentesco.

Dall’accordo sul blocco dei salari del 1993 alle varie leggi fatte anche dalla sinistra che destrutturano il mondo del lavoro in nome della flessibilità. L’esplosione del lavoro a termine, il “lavoro in affitto”, falso lavoro autonomo nato sul mito dell’imprenditore di se stesso, il ricomparire del cottimo e del lavoro gratuito, la battaglia ideologica contro il lavoro pubblico e la frantumazione dei cicli di produzione con appalti e subappalti al massimo ribasso. Lavoratori sempre più soli e deboli nelle loro rivendicazioni.

Tutto ciò si accompagna ad una trasformazione della struttura occupazionale, sinonimo di un cambiamento del Paese che ha visto perdere pezzi di manifattura verso settori dell’economia a più basso valore aggiunto come i servizi (ristorazione, turismo, assistenza e commercio) dove spesso si nascondono sfruttamento e bassi stipendi. L’imprenditoria italiana frantumata e in sofferenza nel processo globale di concentrazione dei capitali, si è specializzata in settori con scarsa redditività e specializzazione poiché, grazie ai bassi salari e alla poca necessità d’investimenti, i profitti sono garantiti ugualmente.

Il grande inganno del contenimento dei salari per innalzare la produttività è presto svelato dai due autori che, attraverso una serie di dati, ci spiegano come ad aumentare è stata semplicemente la quota di reddito passata dai salari al profitto, un inganno che rischia di ripetersi sull’innovazione tecnologica e sulla conversione ecologica dell’economia perché in discussione non è la necessità di questi processi ma chi li gestirà e chi li pagherà. 

Gli ultimi capitoli sono dedicati ad una proposta su cui la sinistra italiana, dopo tanto tentennare, sta in questo momento tentando di ricostruire un’unità d’azione e una ritrovata scala valoriale e su cui la destra alza le barricate: il salario minimo. Consapevoli che la proposta non è la soluzione di tutti i mali, attraverso un’analisi scientifica dei dati di tutti quei paesi dove il salario minimo esiste, si certifica la sua utilità e si demoliscono tutte le fantomatiche problematiche (indebolimento della contrattazione collettiva, rischio sopravvivenza per i soggetti che si vedranno obbligati per legge ad innalzare i salari). Si evince inoltre che la proposta può essere sì una risposta per quei milioni di italiani che sono poveri lavorando ma allo stesso tempo può rappresentare un punto di partenza da cui provare a ricostruire una più ampia strategia d’azione per tutte le persone che vivono di lavoro: rivendicare salari più alti significa mettere in crisi un modello di società[..], a partire dalla questione salariale è possibile ricostruire un fronte comune di lotta per avanzare richieste di maggiore democrazia dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Alessandro Placidi

Alessandro Placidi

Lavoro nella Pubblica Amministrazione come istruttore contabile dopo aver fatto per anni l'operaio metalmeccanico. Sono attivista sindacale della CGIL, amo fare sport all'aria aperta e viaggiare zaino in spalla; m'interessa la politica nazionale e locale. Non possiamo fare a meno di giudicare l'oggi per costruire il futuro: analizzare i fatti che accadono sotto casa nostra per inserirli nel contesto del mondo in cui viviamo può aiutarci a creare, anche in un "territorio disperso" come il nostro, una coscienza comune per costruire un mondo con meno disuguaglianze, razzismo, inquinamento e sfruttamento.

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