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Secondo i dati Istat (qui), nel 2022 gli omicidi di genere rappresentarono l’84,1% degli omicidi di donne (ciò vuol dire che su 126 donne uccise, 106 sono stati femminicidi). Nel 2023 sono 106 le donne uccise, di cui 87 quelle in ambito familiare e affettivo.

Già nella Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite troviamo la definizione di femminicidio (più tardi, nel 1999, con la Risoluzione n. 54/134, l’Assemblea Generale dell’ONU istituirà anche la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne il 25 novembre) (1). Nella dichiarazione stessa, quindi, viene riconosciuta la matrice storica, sociale e culturale della violenza di genere.

Come diceva anche la cara Michela Murgia “la parola femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa. Una donna uccisa durante una rapina non è un femminicidio. Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne. Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto. Dire femminicidio ci dice anche il perché”.

La vicenda della giovane Giulia Cecchetin ha creato tanto scalpore. Ma quante ce ne sono state prima di lei? Già il giorno dopo il ritrovamento del suo corpo il numero di femminicidi è nuovamente aumentato. Perché Giulia dovrebbe essere diversa? Diversa, per esempio, da Chiara Gualzetti? Una ragazza di 15 anni uccisa il 27 giugno 2021, accoltellata e poi finita con calci e pugni dall’amico sedicenne che l’aveva attirata in una trappola, dandole un appuntamento per una passeggiata, per poi ucciderla. Il suo nome e la sua vicenda sono stati strumentalizzati? Si può finalmente parlare di scintilla che fa appiccare il fuoco o è solamente di nuovo fumo? Certo Giulia aveva 22 anni. La mia stessa età e una “vita davanti”. L’età è un ulteriore campanello di allarme perché sembra che la violenza coinvolga sempre di più e sempre più spesso anche i giovanissimi.

Le prime parole di Filippo ai poliziotti tedeschi sarebbero state “ho ucciso la mia ragazza”. In queste parole c’è tutto il senso del femminicidio. Perché no, Giulia non era più la sua ragazza e soprattutto non era “sua”. Dare peso e importanza alle parole è ciò che fa la differenza. C’è proprio questo alla base del femminicidio, della violenza sulle donne e degli stupri in generale, perché lo squilibrio tra uomini e donne si nutre di un linguaggio fondato al maschile, di stereotipi, pregiudizi e concetti come il possesso e l’inferiorità femminile.

Del resto, se ci pensiamo bene, con queste poche parole abbiamo già riassunto in grandi linee il patriarcato.

Da quando Elena Cecchettin, ha pronunciato in televisione e sui giornali la parola “patriarcato” come causa della morta della sorella, sembra che l’Italia abbia improvvisamente avuto a che fare con una cosa mai vista prima. Successivamente, in tanti ne hanno negato addirittura l’esistenza. Ma ce la sentiamo davvero di negare? Una società patriarcale è una società in cui il genere diventa principio organizzatore. Stabilisce, cioè, cosa è consentito o non consentito fare, che ruoli assumere e quali invece evitare, come è opportuno vestirsi, quanta libertà si ha. Molte di queste convinzioni vengono apprese proprio tramite l’educazione, sin dai primi anni di vita: abiti, giocattoli, sport, persino materie scolastiche sono divise per “cose da maschi” e “cose da femmine”. A bambini e bambine vengono insegnate cose molto diverse riguardo la loro possibilità di muoversi, esprimersi e rapportarsi con l’altro sesso. Già questo non vi suona come qualcosa di familiare? Ma del resto chi afferma questo è lo stesso che di fronte ad uno stupro giustifica l’aggressore facendo commenti sulla lunghezza della gonna o dicendo che “del resto se l’è cercata, l’ha stuzzicato”. Ecco questo è un esempio molto adeguato, che va a braccetto con la classica educazione patriarcale nella quale si insegna alle bambine e alle ragazze a stare attente, a non mettersi troppo in mostra o ad avere la testa sulle spalle, mentre raramente si insegna ai bambini il rispetto del consenso altrui.

La nostra società non è patriarcale? A proposito ci torna di nuovo utile l’Istat (qui) che afferma che quasi il 20% degli uomini pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire, l’11% ritiene che al momento di una violenza sessuale se la donna era ubriaca sia, almeno in parte, responsabile. Ancora, il 39,9% degli uomini pensa che una donna possa sottrarsi da un rapporto sessuale se non vuole averlo davvero, il 10% ritiene che una donna se dopo una festa accetta un invito da un uomo e viene stuprata sia anche colpa sua.

Queste affermazioni fanno venire i brividi, dovrebbero essere considerate pure assurdità, invece le alte percentuali parlano da sé.

Dopo quanto accaduto, mercoledì 22 novembre, il Senato ha approvato in via definitiva all’unanimità (con 157 voti favorevoli), il disegno di legge n. 923 in materia di contrasto alla violenza sulle donne e domestica (2).  Il testo, approvato già dalla Camera dei deputati il 26 ottobre scorso, è stato presentato dal Ministro per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, insieme al Ministro dell’interno Piantedosi e al Ministro della giustizia Carlo Nordio. Ora è dunque legge e molte delle disposizioni contenute in questo documento entreranno nel codice di procedura penale. In particolare, è prevista una maggiore severità, con l’inasprimento delle misure cautelari, verso i cosiddetti “reati spia”, cioè quelli che sono indicatori di violenza di genere (percosse, lesioni, minacce, atti persecutori, etc.) e il c.d. “arresto in differita”, precedentemente previsto solo per i reati commessi allo stadio, che prevedevano poi come misura il “daspo”.

Per vedere gli effetti del nuovo provvedimento occorrerà tempo. Quello che invece è già evidente è il fatto che, il Governo Meloni ha tagliato i fondi per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere. Dai 17 milioni stanziati nel 2022 dal Governo Draghi si è passati a 5 milioni, con un calo del 70%. (qui) Dunque, più leggi che dovrebbero rendere più severe le pene per i reati di violenza contro le donne, ma meno risorse per evitare che questi accadano.

Ma del resto è inutile concentrarsi solo sulle pene, in questo modo. Serve prevenire. Serve l’educazione per fare la rivoluzione. Dovremmo parlare di più di cultura di genere, ma non in maniera retorica, non deve trattarsi di una cultura retorica dell’integrazione ma di rispetto, rispetto di genere. Si sta discutendo molto del luogo e sulle modalità di questa educazione. Per qualcuno è compito e in questo caso una carenza, delle famiglie. Ma no, non può essere solo il contesto familiare quando il luogo educativo per eccellenza è la scuola. Si dovrebbe riflettere di più sul ruolo fondamentale della scuola e su come questa incida sulla vita degli studenti (e anche per questo dovremmo investirci, invece di tagliare sempre di più i fondi!). Agire sull’educazione prevedendo anche corsi di affettività e sessualità, con una formazione per gli insegnanti o con la previsione di figure professionali. È chiaro che la delicatezza di questi discorsi non portano un’adolescente ad aprirsi con un genitore, o per lo meno questo non avviene nella maggior parte dei casi, anche perché purtroppo molti temi sono ancora considerati dei taboo. Servono persone “esterne” ed esperte. Spesso, avendo ormai tutti a disposizione il telefono, con facile accesso ad un mondo esagerato di contenuti, si rischia di incorrere in realtà e informazioni falsate soprattutto se non si ha un’età giusta per saperle discernere e queste finiscono inevitabilmente per cambiare i propri parametri.

Siamo stufe di sentire parlare di violenza di genere, soprattutto nel ventunesimo secolo. Dobbiamo arrivare ad ammettere che la nostra società ha una mentalità avvelenata e velenosa che purtroppo, però, finisce sempre per essere raccontata come “raptus improvviso di follia”, ma non lo è perché, se la dinamica è sempre uguale, è una questione culturale. Ci dicono che “era una persona tranquilla”. “Un bravo vicino di casa”. “Un dolce papà”. Che però dice: “Ti tolgo tutto. Ti uccido anche i figli, non devi avere più niente. O me o nessun altro, o sei mia o di nessuno più”.

“O mia o di nessun altro”, “l’ho fatto perché l’amavo troppo” basta confondere queste frasi con l’amore.

L’amore non è questo, l’amore non è possesso. Questo è abuso e l’abuso è violenza. E dietro la violenza c’è il fallimento di una società.

 

Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. (3)

 

 

 

  1. La data per ricordare questo fenomeno a livello internazionale è stata scelta in memoria di Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, tre sorelle della Repubblica dominicana vittime di violenza. Il 25 novembre 1960, mentre andavano a fare visita ai loro mariti (detenuti perché si opponevano al regime trujillista), vennero rapite da agenti del servizio di informazione per poi essere stuprate, torturate, uccise. Gli agenti abbandonarono i corpi delle tre donne in un precipizio a bordo della loro auto, simulando un incidente stradale. Una volta scoperto l’accaduto, dopo la fine del regime, in occasione del primo incontro femminista latino-americano e caraibico tenutosi nel 1981 a Bogotà, venne scelta questa data come ricorrenza contro la violenza maschile verso le donne.
  2. Per consultare il testo della legge si consiglia di andare qui.
  3. ultimi due versi della poesia di Cristina Torre Cáceres, artista e attivista peruviana che in questi giorni sta spopolando sui social. La poesia risale al 2011. La protagonista, che parla in prima persona, si rivolge alla mamma e le chiede di “distruggere tutto” nel caso in cui dovesse essere vittima di femminicidio. La poetessa ha scritto questi versi dopo la morte di Mara Castilla, uccisa da un autista. I versi sono diventati il simbolo della lotta contro la violenza di genere, soprattutto nelle manifestazioni del movimento “Ni una menos”, nato in Argentina il 3 giugno 2015.
  4. si consiglia inoltre la lettura di questi ulteriori dati, sempre forniti dall’Istat sulle diverse forme di violenza: qui.
  5. In copertina: il segnale d’aiuto per le donne in pericolo, è facile immediato e sicuro. Se vedi questo gesto contatta il 1522 o le forze dell’ordine.
  6. Anche nel nostro comune è attivo il servizio “Sportello donna”, centro di ascolto e accoglienza. Il sito con tutte le info (qui).
Alessandra Fasulo Di Giacomo

Alessandra Fasulo Di Giacomo

Ho ventidue anni e sono una studentessa. Frequento il quarto anno di Giurisprudenza ma no, non per diventare avvocato (forse). Le mie passioni sono la montagna, il cibo, il vino, la musica e le conversazioni stimolanti. Grazie a "IlSadadí" ho riscoperto anche la passione per la scrittura e l'approfondimento di tematiche di attualità che rientrano nel mio campo di studi, temi che mi colpiscono e di cui, di conseguenza, sento il bisogno di parlare e di riproporvi (qui).

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