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Da tempo, quando si parla di quali prospettive siano possibili per le aree rurali della nostra bella Italia, è solo una la parola che riesce a riempire i programmi: la tradizione. Valorizzare prodotti e processi tradizionali è il nuovo credo a cui si devono convertire i piccoli borghi di campagnia. Quasi come un Leviatano capace di fagocitare ogni altra prospettiva, la devozione al “mito della tradizione” sta trasformando tanti borghi del nostro territorio in mere attrazioni turistiche capaci di offrire ben poco in cambio ai sempre più scarsi residenti. Quelli che poi queste tradizioni dovrebbero mantenerle vive.Che prezzo ha dunque la nascita di questo “mito della tradizione”? E soprattutto, esiste davvero “una”, unica e incontrovertibile tradizione oltre la quale c’è l’eresia? La questione è complessa, ma vale la pena provare a rifletterci.

 

Quando si parla di cibo in Italia si deve sempre fare molta attenzione, come ricordano molti meme in circolazione sui social, potremmo accettare aumenti delle tasse di ogni tipo senza battere ciglio, ma se mettiamo in discussione il pecorino sulla carbonara scatta l’intifada. Un atteggiamento che senz’altro rivela molte cose sulla nostra cultura. Siamo un popolo legato al proprio passato, e a ragione, visto che tutto il mondo ce lo invidia e siamo da sempre meta di pellegrinaggio di turisti devoti agli aspetti più disparati di un sapere accumulato e conservato nel tempo, e che spazia dall’architettura storica alle arti figurative passando per il folklore e l’enogastronomia. Contemporaneamente però, da questa percezione del passato come dimensione ormai perduta di ogni valore genuino, ci lasciamo facilmente sedurre e perfino ingannare. E l’enogastronomia è senz’altro uno dei fronti in cui la cosa è maggiormente visibile, soprattutto in Umbria. In questa regione è facilissimo sentire la presenza del passato, piccoli borghi medievali fanno da cornice a una costellazione di piccole attività a conduzione familiare dai nomi evocativi che rimandano spesso alle loro generazioni precedenti, quelle che hanno iniziato a costruire il bagaglio d’esperienza grazie al quale oggi possono dirsi alfieri di un autentico prodotto tradizionale. Ecco perciò le antiche norcinerie, il frantoio di famiglia da 3 generazioni e così via, tutti a raccontare quanta storia e quanta conoscenza pregressa si racchiude in ogni singolo prodotto. Ma è davvero questa la realtà dei prodotti d’eccellenza? È davvero nel passato di fame e deprivazione in cui vivevano i nostri nonni che risiede il segreto dei prodotti di qualità? E soprattutto, è davvero nel passato che dobbiamo cercare la chiave per il futuro?

 

La verità è che ci tantissimo studio e competenze specifiche per trasformare il vino che tante famiglie fanno da decenni nella propria cantina, in un prodotto capace di ritagliarsi il proprio spazio in un mercato aggressivo come quello contemporaneo. E se ciò accade è perché spesso non c’è rimasto niente o quasi del progetto originario, dalla potatura alla fermentazione innescata con lieviti selezionati capaci di sviluppare aromi ben precisi, la gran parte degli elementi che possono rendere un Sagrantino del 2017 un vino eccellente sono frutto di innovazione. Così come le nuove tecniche di gramolazione a freddo delle olive nei frantoi hanno reso l’olio un qualcosa di straordinariamente più aromatico e nutriente di prima; e si potrebbe continuare. Questo significa che la tradizione non ha valore? Assolutamente no, le nostre tradizioni familiari svolgono un ruolo fondamentale, soprattutto come momento di ispirazione, per decidere di coltivare una passione al punto di farne la passione di tanti altri insieme a noi, e questa cosa è fantastica. Tuttavia, a forza di riporre tutte le cose migliori nel passato, rischiamo di dimenticare l’importanza dell’evoluzione di cui siamo stati capaci a partire da quella base. Soprattutto rischiamo di dimenticare che il mito della tradizione si vende bene a turisti che arrivano in Umbria grazie alla promozione su canali digitali. Non solo,attraverso gli e-commerce possiamo mantenere vivo non solo il ricordo ma anche il canale di vendita. Perché quando erano davvero solo i nostri nonni con le loro tradizioni, tutto quello che desideravano erano delle opportunità nuove. Le stesse di cui abbiamo bisogno noi oggi per mantenere vivo un territorio da cui in sempre di più se ne vanno. E dove c’è l’abbandono la tradizione scivola rapidamente nella memoria nostalgica del tempo che fu. 

 

Qui più che altrove la politica deve essere capace di leggere i tempi e correggere il tiro affinché la tradizione che tanto ci piace decantare agli altri – che per altro hanno la loro tradizione che reputano senz’altro come la più genuina di tutte al pari nostro – possa avere un futuro. Evolversi o sparire, è questo il messaggio che ci lanciano i tanti borghi dell’appennino, e nel tanto dolore che ha arrecato a tutti noi, la pandemia di Covid-19, una luce in questa direzione l’ha accesa: lo smart-working. Quale migliore opportunità per ripopolare zone dove c’è un’alta qualità della vita ma scarse prospettive occupazionali? Quale migliore opportunità per abbassare la pressione antropica delle città e la nostra impronta ecologica? Certo la via è tutt’altro che semplice e passa dalla capacità di garantire dei servizi adeguati che sappiano essere attrattivi, però costituisce una prospettiva come mai c’è stata per i borghi umbri. Non ci resta che sperare in una classe politica capace di capire che mantenere vivi “i lavori di una volta” è fondamentale, ma anche che questa non può essere l’unica scelta. 

 

Andrea Cimarelli

Andrea Cimarelli

Andrea Cimarelli è laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Macerata. Coltiva, la terra per mestiere, l'amicizia per passione, se stesso per vocazione. Già redattore della rivista Ritiri Filosofici, osserva il mondo per comprenderlo e difenderlo. Collabora attivamente con l'hub Territorio e Ambiente della Rete di Civici Per l'Umbria. Favorevole a vaccini, matrimoni gay e 5g.

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