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SICCITA’, DESERTIFICAZIONE E CATASTROFI NATURALI: A QUANDO UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA DELL’UOMO?

Poco più di 3 mesi fa, all’inizio di questa torrida e secca estate, abbiamo organizzato il primo evento pubblico di questo giornale online, dal titolo “Acqua Chiara” con l’intento, coinvolgendo anche le istituzioni locali e i principali interlocutori in materia che però si sono negati, di approfondire alcune tematiche legate a questo grande argomento e inerenti al nostro territorio con un’attenzione particolare a quelle che toccano da vicino la popolosa frazione di San Terenziano.

Da parte dell’Amministrazione Comunale e di VUS ci fu poi l’intenzione di non partecipare declinando l’invito in virtù di un imminente incontro pubblico, sempre su questo tema, che avrebbe dovuto svolgersi a luglio.

Fu così che arrivò prima la pioggia dell’annunciato appuntamento.

Com’è andata l’estate, anche rispetto al preoccupante scenario dipinto in quell’occasione sia a livello globale che a livello locale?

Tralasciando le questioni legate a siccità, carenza di acqua, mancata manutenzione delle infrastrutture idriche, argomenti ampiamente trattati più volte nei mesi scorsi nei nostri pezzi (puoi approfondire qui, quiqui), voglio ora affrontare le conseguenze della siccità e della carenza di acqua: la desertificazione.

Il 17 giugno scorso, in occasione della giornata mondiale contro la desertificazione e la siccità, l’ANBI (Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue) aveva pubblicato un’analisi della situazione e esponendo lo stato del nostro territorio inserendolo in una fascia di media vulnerabilità. Nello specifico l’Umbria, insieme a Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Abruzzo e Campania, presenta una percentuale di territorio a rischio fra il 30% e il 50%; peggio solo la Sicilia (al 70%), ma anche Molise (58%), Puglia (57%) e Basilicata (55%) non se la passano bene. Altre sette regioni (Calabria, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Veneto e Piemonte) sono fra il 10% e il 25%. La situazione evidenziata dall’analisi dell’Anbi, strutturata sul confronto delle due serie storiche 1990 e 2000, risulta veramente molto complessa.[1]

Sempre l’ANBI l’8 settembre scorso ha pubblicato un nuovo studio dal titolo: “Osservatorio ANBI: risorse idriche senza interventi strutturali al centro nord l’equilibrio idrico non regge, le riserve d’acqua faticano a ricostituirsi. A rischio ambiente e made in Italy agroalimentare”. Nel comunicato si legge che “Come previsto, le piogge d’Agosto, cadute in maniera disomogenea e con diversa intensità sull’Italia, non hanno risolto la condizione di conclamata crisi idrica, presente in diverse zone del Paese già dall’estate 2021 e risolvibile ormai solo nel medio periodo”. Nella generale ma precisa analisi territoriale e regionale tracciata dallo studio, pur registrando differenze tra le aree, si denotano difficoltà comuni, come quella relativa alle falde acquifere che in tutta Italia necessiterebbero di lunghi e costanti periodi di pioggia per ricaricarsi a dovere. In merito alle precipitazioni scarse, l’analisi dell’ANBI riguardo la nostra regione afferma che “Un andamento di precipitazioni quantomai diversificato si è registrato anche in Umbria, dove sono mediamente caduti 70 millimetri di pioggia: si va dai mm.3,6 di Forca Canapine sui monti Sibillini ai mm. 143,6 su Monteleone di Spoleto”. [2]

 

 

Per un’analisi dell’andamento delle precipitazioni nella decade 1991-2020 e cumulate del 2021 leggi qui .

Parlare di desertificazione in Umbria potrebbe far sorridere, associando la parola all’idea di sabbia e di deserto, ma questo termine si usa anche quando il suolo perde la sua fertilità magari per piogge troppo intense dopo prolungati periodi di siccità. Questo è esattamente ciò che si è verificato nelle ultime settimane e ancor più dolorosamente negli ultimi giorni. “Bombe d’acqua”, “alluvioni” non sono altro che manifestazioni estreme e incontrollabili dello stesso problema, un’altra faccia della stessa medaglia. Anche in questo caso l’intervento dell’uomo è stato negativamente decisivo. Negli ultimi giorni le Marche, nello specifico le province di Ancona e Pesaro-Urbino, sono state colpite da grandi piovute che hanno causato allagamenti improvvisi e purtroppo la conseguente morte di persone, adulti e bambini. Un’inchiesta aperta, come d’obbligo in questi casi pur trattandosi di calamità naturali, vede agire anche in questo caso l’incuria umana: si parla di lavori di mitigazione rischio mai eseguiti e di allerta meteo mai emanata, in una zona già colpita da questi eventi anche 8 anni fa.

Appare chiaro quindi quale sia la reazione della Natura in conseguenza alle nostre sconsiderate azioni: sa adattarsi, modellarsi, trovare nuove strade, ritrovare i propri spazi dove vivere ed esprimersi. I fiumi rompono artificiali e oppressivi argini e creano nuovi letti nei quali scorrere, gli animali si spostano in cerca di habitat più adatti a loro, le piante germogliano in climi dove temperatura e umidità sono più giusti.

La pandemia da Covid-19 ha fatto chiaramente emergere le molteplici fragilità di questa nostra umanità progredita ed egocentrica, completamente autoreferenziale e assolutamente ignara di quanto dipenda dall’ambiente circostante, che ha nel tempo sabotato, e di quanto questo, al contrario, possa ampiamente fare a meno di lei per sopravvivere. A testimonianza di ciò, nei mesi di lockdown abbiamo visto ad esempio come la vegetazione si sia riappropriata di spazi urbani, di come i delfini siano stati avvistati nella laguna di Venezia.

Ragionando in termini egoistici, che sembrano essere gli unici intesi dall’uomo, la salvaguardia dell’ambiente e della Natura è l’unica garanzia per il nostro futuro. Avendo commesso errori per centinaia di anni, è il momento questo di rendersi conto che il punto di vista corretto non è quello antropocentrico.

A tal proposito, concludo riportando la premessa scritta da Stefan Zamberlan per il suo editoriale dal titolo “La fine dell’Antropocene? Dalla pandemia alla presa di coscienza della Terra come sistema complesso” nella speranza che possa suscitare l’interesse di leggere il breve ma illuminante lavoro[3].

“La vita dell’umanità dal 2020 ad oggi è stata fortemente influenzata dalla diffusione del coronavirus SARS-CoV-2 comunemente chiamato COVID-19. La pandemia ha messo in luce molte fragilità dei sistemi sociali, economici e finanziari e le ripercussioni hanno colpito il modo di produrre, consumare, lavorare, spostarsi e viaggiare, curare, insegnare, abitare e relazionarsi. La pandemia si è sovrapposta a situazioni oramai esasperate: inquinamento, guerre, migrazioni, fondamentalismo, intolleranze, proprio nel periodo storico in cui si devono prendere le decisioni necessarie per fermare il cambiamento climatico. Una condizione di sofferenza dell’umanità colpita da questa pandemia o, meglio da sindemia, termine coniato da Merril Singer per evidenziare quei casi in cui due o più patologie interagiscono all’interno di una popolazione specifica aggravando la loro salute. L’insorgenza di una sindemia è legata a condizioni di disparità sociale che espongono a fattori quali inquinamento, stress, povertà o violenza strutturale. E se alcune correlazioni appaiono evidenti, infezioni che colpiscono individui debilitati da malnutrizione, altri sono meno scontati, come la compromissione metabolica e del sistema immunitario legata all’alimentazione industriale o allo stress. Un chiaro segnale della fragilità dell’uomo, che è animale tra gli animali, figlio dell’ambiente. Purtroppo non solo l’umanità non riconosce questo suo essere parte dell’ambiente, ma neppure riconosce la necessità di pensare a sé stessa in modo comunitario come specie. Tali accettazioni porterebbero alla fine dell’antropocene[4] – sviluppatosi più sull’egocentrismo e sull’individualismo che non sull’antropocentrismo – in favore di un ecocentrismo non romantico, ma basato sulle solide basi scientifiche dello studio dei sistemi complessi e della coevoluzione. Su queste basi possiamo affermare non solo che la qualità di vita dell’uomo è tanto più alta quanto più in armonia con l’ambiente e ispirata alla cooperazione, ma anche che questa è l’unica via per dare un futuro migliore e duraturo alla nostra specie e al nostro pianeta”.

Mi affido a queste parole e all’osservazione degli eventi che accadono attorno a noi, vicino a noi, per ispirare una riflessione in ognuno di noi.

 

 

 

[1] In Spagna, la desertificazione interessa ormai il 72% del territorio, in particolare nella zona oggi conosciuta come il “mare di plastica“, cioè l’area delle serre nel Sud del Paese, dove viene praticata un’agricoltura intensiva estrema, con un grande uso dell’acqua di falda. In Grecia si stima che, entro la fine del secolo, almeno il 70% del territorio diventerà arido.
[2] Per approfondire la lettura: https://www.anbi.it/art/articoli/6776-osservatorio-anbi-risorse-idriche-senza-interventi-struttura.
[3] IL testo completo qui: https://www.economiaeambiente.it/wp-content/uploads/2021/07/Editoriale_2020-1_La-fine-dellantropocene.-Dalla-pandemia-alla….pdf
[4] L’Antropocene è una proposta epoca geologica, nella quale l’essere umano con le sue attività è riuscito con modifiche territoriali, strutturali e climatiche ad incidere su processi geologici. Riguardo alla definizione scientifica di Antropocene, alcuni hanno suggerito di non rimanere intrappolati in definizioni specifiche delle proprie discipline ma di guardare oltre, considerando i cambiamenti nel sistema Terra per intero. Il termine deriva dalle parole in greco anthropos e kainos, che significano rispettivamente essere umano e recente, e almeno inizialmente non sostituiva il termine corrente usato per l’epoca geologica attuale, Olocene, ma serviva semplicemente ad indicare l’impatto che l’Homo sapiens ha sull’equilibrio del pianeta. Recentemente le organizzazioni internazionali dei geologi stanno considerando l’adozione del termine per indicare appunto una nuova epoca geologica e stanno stabilendo da dove cronologicamente farla iniziare in base a precise considerazioni stratigrafiche.