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Pasqule Tridico, importante economista nonché ex presidente dell’Inps, in un recente articolo scritto per Il Fatto Quotidiano ci spiega con precisione quanto “tutti i criteri di analisi scientifica del mercato del lavoro siano saltati”. Per prima cosa la decantata crescita record dell’occupazione certificata per il governo dalla percentuale degli occupati a tempo indeterminato nella popolazione tra i 15 e i 64 anni di età (tasso di occupazione) arrivata al record del 61%, è un semplice aumento statistico determinato dal calo demografico (800.000 unità di forza lavoro in meno in quattro anni). L’occupazione è cresciuta come viene affermato ma, come si evince dall’ultimo rapporto Censis, con un numero di ore inferiore: sono in aumento i part-time e la precarietà. Inoltre i salari sono diminuiti del 2,9% tra il 1990 e il 2020 e crollati in termini di valore reale del 15% tra il 2020 e il 2023 a causa dell’inflazione. Sempre secondo il Censis il 61% dei giovani se avesse la possibilità se ne andrebbe dall’Italia, circa 82.000 italiani si sono registrate all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) nell’ultimo anno e di questi circa il 46% sono laureati. Ecco dunque che il racconto della Presidente del Consiglio Meloni di un paese in cui tutto finalmente va molto bene è alquanto fantasioso.

L’analisi scientifica del  mercato del lavoro sembra essere saltata anche in Umbria, nonostante nel 2021 sia stato istituito l’apposito Osservatorio Regionale, l’ultimo bollettino di informazione statistica fruibile a tutti e da cui si potevano analizzare anche i dati di assunzioni e cessazioni per ogni singolo Comune, risale al III trimestre del 2019. Naturalmente la stessa cosa accade a livello locale, anche nell’ultimo documento di programmazione recentemente approvato in Consiglio Comunale il grande assente è il mondo del lavoro, nemmeno considerato dal punto di vista meramente statistico.

Questa volontà di non analizzare e studiare i dati con rigore scientifico ma utilizzarli strumentalmente, oltre ad essere funzionale alla narrazione che tutto va per il verso giusto e che tutto sia meglio di prima, modalità di propaganda che accomuna i vari livelli di Governo, è allo stesso tempo il frutto di una visione del mondo ben chiara e definita, liberale e liberista: anche nel mondo del lavoro deve essere il mercato a regolare i rapporti e lo Stato e le sue diramazioni locali possono al massimo fungere da burocrati osservatori. Del resto l’evoluzione legislativa del mondo del lavoro dell’ultimo trentennio è stata funzionale a questo modo di concepire la politica economica ed è stata praticata anche dalle forze di centro sinistra.

In passato per oltre mezzo secolo il mercato del lavoro in Italia è stato gestito dallo Stato sia per la regolamentazione che per la distribuzione delle opportunità di lavoro. Era vietata l’iniziativa privata in termini di collocamento della manodopera (divieto di mediazione privata L.264/1949), lo Stato selezionava e inviava i soggetti alle aziende che potevano fare richiesta agli uffici di collocamento solamente del numero di lavoratori necessari. Inoltre si vietava il fenomeno per cui i lavoratori, assunti formalmente da un soggetto, potessero prestare la propria attività per un altro (divieto di interposizione nei rapporti di lavoro L.23 ottobre 1969, n.1369 e art. 2127 c.c.).

Questo sistema è rimasto inalterato fino al 1970, anno in cui è stato introdotto il collocamento speciale in agricoltura (L. 11 maggio 1970, n.83). La prima grande modifica si ebbe comunque nel 1990 quando è stato istituito il meccanismo della chiamata nominativa che consentiva ai datori di lavoro di assumere i lavoratori da loro individuati facendone richiesta al competente ufficio di collocamento.

Le prime riforme con cui inizia la vera fase di destrutturazione che ha portato alla giungla attuale, mercato del lavoro caratterizzato come abbiamo visto da salari bassi e precarietà iniziano con il centro sinistra. Nel biennio 1996/97, primo governo Prodi, con la scusa di combattere le rigidità del sistema, di rendere le aziende più competitive aumentando la produttività, oltre che per rispondere già allora alle richieste dell’Europa sulla concorrenza, sono iniziate una serie di deregolamentazioni. La classe dirigente ormai ex comunista, giunta al potere per la prima volta nella storia della Repubblica se si esclude l’appoggio esterno al Governo Andreotti IV del 1978, le dieci ore di governo Ciampi del 1993 e l’appoggio al governo tecnico Dini, mettono in pratica anche per il mercato del lavoro le teorie del liberismo.

La caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Urss e la sconfitta del Comunismo, o almeno di quello che veniva spacciato per tale, aveva reso indispensabile l’abiura degli ideali socialisti che avevano caratterizzato i partiti di sinistra del novecento. Convinti ormai che il mercato potesse gestire anche i rapporti di lavoro viene approvato il pacchetto Treu: le assunzioni potevano essere fatte da quel momento direttamente dal datore di lavoro, venne introdotto il lavoro interinale (contratto di fornitura temporanea) con le prime modifiche al divieto di interposizione di manodopera. Il collocamento venne trasformato a mero registro delle dinamiche del mercato del lavoro e, attraverso la riforma Bassanini, passa dallo Stato alle Regioni.

L’opera viene ultimata nel 2003 dal governo Berlusconi attraverso la riforma Biagi con l’introduzione di una serie di forme contrattuali “atipiche” per terminare con il “job act” firmato dal governo Renzi. In sostanza un mercato del lavoro sempre più flessibile in cui le aziende sono libere di licenziare e assumere anche per brevi periodi i lavoratori, dovrebbe essere bilanciato da una maggiore garanzia di assistenza del lavoratore sul mercato del lavoro. Operatori pubblici o privati dovrebbero svolgere attività di intermediazione tra domanda e offerta, svolgere ricerca e selezione del personale per conto di aziende, supportare la ricollocazione professionale e fornire manodopera attraverso la somministrazione di lavoro.

Queste attività possono essere svolte da operatori pubblici (centri per l’impiego) o privati (agenzie per il lavoro) ma possono essere effettuate anche da ulteriori soggetti tra cui i comuni singoli e associati.

Ecco dunque che forse anche a livello territoriale un piccolo margine di manovra per l’amministrazione Comunale ci sarebbe, non politiche industriali come si chiede a Governo e Regioni ma tentare almeno di coordinare il mercato del lavoro locale potrebbe essere occasione di crescita e sviluppo. Questo perché lo svuotamento dei centri urbani, lo spopolamento e il declino verso cui sembra avviato Gualdo Cattaneo così come tutti i borghi periferici non si combatte con lo “spot del rilancio” ma con l’aumento dei servizi e con il lavoro.

Ecco però che torniamo al punto di partenza e alle mancanze di chi governa: senza un’analisi scientifica, senza conoscere è impossibile agire e provare ad intervenire.

Alessandro Placidi

Alessandro Placidi

Lavoro nella Pubblica Amministrazione come istruttore contabile dopo aver fatto per anni l'operaio metalmeccanico. Sono attivista sindacale della CGIL, amo fare sport all'aria aperta e viaggiare zaino in spalla; m'interessa la politica nazionale e locale. Non possiamo fare a meno di giudicare l'oggi per costruire il futuro: analizzare i fatti che accadono sotto casa nostra per inserirli nel contesto del mondo in cui viviamo può aiutarci a creare, anche in un "territorio disperso" come il nostro, una coscienza comune per costruire un mondo con meno disuguaglianze, razzismo, inquinamento e sfruttamento.

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